domenica 14 agosto 2011

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So che sarò duro ma voglio evitare le banalità e andare al vero nucleo della questione dell'Italia oggi.

E' innegabile che una grossa parte del problema è questa nostra classe politica , inetta o mafiosa, a seconda della parte che si considera, e il modo di concepire la società che ha questo governo, che riflette il "forzismo" che hanno seminato per 15 anni - a proposito, ci avete fatto caso che la crisi italiana dura da quando c'è il nano? Be' non è un caso.

Ma fermarsi qui è troppo facile, è consolatorio: "in fondo noi siamo bravi, è tutta colpa sua (o loro)". L'altro 50%, purtroppo, è la pigrizia, soprattutto mentale, degli Italiani. Forse perché non lo sono mai stato, solo ora a 37 anni mi rendo conto che la maggior parte della gente pensa solo a tirare a campare, partendo dallo "scaldare" il banco a scuola per aspirare al minimo 6 anziché approfittare dell'occasione per avere la CONOSCENZA che è l'unico vero POTERE, e quella però te la devi prendere tu, non te la possono dare i maestri. Loro possono darti gli "attrezzi" poi sei tu che scavi. E poi c'è il tirare a campare dell'italiano tipo, casa-ufficio-tv-calcio-centro commerciale che non si fa domande, non è incuriosito da niente, che ripete le frasi dette in TV senza sapere quello che dice, che in qualunque cosa "fa come fanno tutti così non rischia di sbagliare", la verità è che conosce troppo poche cose per inventarsi un'altra soluzione, magari migliore. Quello che proprio perché non sa niente crede di saper già tutto quel che serve (mentre più si sa, più crescono le domande rispetto alle risposte), vale a dire essere uno squalo arricchito cafone. Una bella definizione di "cafone": è colui che non si cura degli altri, che tira dritto per i suoi interessi senza badare che esistono anche quelli degli altri. Quello che si vanta di essere furbo, non intelligente, perché per essere intelligente ci vuole sforzo e lui ne vuole fare il meno possibile. L'Italiano medio rintanato nel suo orticello quotidiano, ripetitivo e ristretto, piccolo, gretto, egoista, pecorone e di vista molto corta, con la mente all'ultima notizia ma senza nessuna capacità di ricordare un prima o prevedere un dopo, men che meno di collegare il tutto, ancora una volta perché non ha studiato davvero, non ha mai approfondito qualcosa, non ha mai avuto sete di conoscere meglio un qualunque angolo dello scibile umano. Negli altri paesi non è così, nei paesi che funzionano intendo, ad esempio gli stati dell'Europa del nord. Anche come produzione, l'Italia è rimasta agli occhi degli stranieri un paese di manodopera poco istruita, obbediente alle gerarchie, facilmente pilotabile e adatta quindi per compiti ripetitivi dove la qualità finale conta poco e conta ancora meno che l'operatore ci metta delle sue conoscenze, mentre contano soprattutto le quantità prodotte e il prezzo basso (vi dice qualcosa questa descrizione? A che nazione la possiamo sovrapporre oggi?...) - una società da anni 50, fantozziana. Ma questo sistema oggi non funziona più. Invece oggi i paesi in cui le cose funzionano, hanno lavoratori istruiti, che contribuiscono all'attività con le loro conoscenze, lavorano in ambienti poco gerarchici, producono oggetti di qualità, che valgono di più e quindi costano di più e quindi gli stipendi sono più alti. E guardacaso in genere questo tipo di persone sono anche quelle che hanno politici più efficienti, non pensano solo al loro orticello, si sentono parte di una società, e magari anche di un pianeta.
Chiudo con una domanda: se come diceva Pavese "un Paese vuol dire: non essere soli", voi come vi sentite oggi? Che Paese è questo?

domenica 22 maggio 2011

(forse) il tramonto del jihad

E così anche Bin Laden se n'é andato. Dopo aver sconvolto l'occidente e il mondo islamico negli ultimi dieci anni, la sua morte segna un giro di boa nella geopolitica. Quali conseguenze avrà per entrambe le parti in causa, nel medio-lungo termine? Ovviamente tale tipo di previsioni può essre sempre azzardato, ma ci sono alcuni aspetti, nei vari scenari che compongono gli attori in gioco, su cui vale la pena di azzardare qualche previsione, con una sola, generale premessa: questo evento, almeno nell'immediato, non capovolgerà automaticamente le situazioni, non dobbiamo cadere nella trappola di credere che ucciso Bin Laden tutto tornerà a posto. Per quanto importante, era solo un attore fra molti, e tutto sommato direi che ormai era una figura del passato anche per il mondo musulmano, probabilmente anche scomoda ormai, e in ultima analisi è per questo che è caduto.

  • Afghanistan/ Pakistan: già il fatto di nominarli insieme dovrebbe far capire che le sorti dei due paesi sono legate fare loro, considerando che le basi sia ideologiche che logistiche di molti partigiani afghani contro la coalizione hanno sede nelle zone al confine fra i due paesi, e che la stessa Al Qaeda è stata fondata in Pakistan. Detto questo, è risaputo che i servizi segreti pakistani - l'ISI - hanno avuto sempre un atteggiamento quanto meno ambiguo nei confronti di Al Qaeda e dell'alleato americano, praticando spesso e volentieri il doppio gioco. Il fatto che Bin Laden sia stato trovato a poca distanza da un complesso militare non fa che confermare le peggiori ipotesi: o ne erano a conoscenza, il che significa che una parte sostanziale dei vertici dell'ISI ha protetto e aiutato Bin Laden, nascondendolo agli alleati ufficiali del paese, vale a dire gli americani, o non ne erano a conoscenza, il che significa che hanno fallito su un obiettivo ad alta priorità (naturalmente è molto più probabile la prima ipotesi). Il capo dell'ISI è volato a Washington e probabilmente tornerà presentando le dimissioni. Già da qualche tempo i Taliban hanno iniziato - cautamente - a svincolarsi dall'abbraccio ormai scomodo con Al Qaeda, cercando di trasformarsi in movimento politico, un po' sulla falsariga della trasformazione che sta iniziando nel Paese Basco coi movimenti autonomisti, che si stanno allontanando dal terrorismo dell'ETA per avviare un percorso di lotta politica. Francamente, non so dire quanta buona fede ci si possa aspettare da un tentativo speculare da parte dei Taliban; si può ipotizzare anche che una parte abbia davvero queste intenzioni, ma non so se i dirigenti siano in questo gruppo: forse hanno solo fiutato il giro di vento e si son travestiti da agnelli per poi agire da lupi. In ogni caso, la fine di Bin Laden e la marginalizzazione di Aq Qaeda probabilmente contribuiranno ad accelerare la trasformazione dei Taliban in movimento politico (più o meno) presentabile, il che porterà prima o poi a incontri diplomatici, prima segreti (probabilmente già in corso), più avanti palesi, infine a conferenze di pace con gli americani, che - diciamocela tutta - non vedono l'ora di avere l'occasione per andarsene senza fare la figura di quello che ha perso, e questa è veramente su un piatto d'argento. Del resto, considerando i morti afghani negli attentati, suppongo che neanche la maggioranza della popolazione ami gente che ammazza i connazionali molto più degli invasori (nei due sensi della frase), e questo potrebbe accelerare la loro fine. Con in più il fatto che negli Stati Uniti si avvicinano le elezioni e per Obama, poter magari annunciare la fine della guerra poco prima delle elezioni, sarebbe un grosso colpo che lo rafforzerebbe per la rielezione. L'otto maggio importanti politici afghani hanno già invocato le dimissioni di tutto il governo e successivamente di tutti i vertici militari - a cui l'ISI fa capo, nonché l'abbandono del territorio da parte delle truppe straniere. I negoziati si avvicinano a grandi passi, ciò non significa che saranno semplici, anche perché parteciperanno molti attori - anche e specialmente di altri paesi della zona e non, ognuno con le proprie rimostranze.

  • Palestina e Israele: anche qui l'accoppiata è per gli stessi motivi. Le forze in campo che si sono affacciate di recente sono ovviamente la morte di Bin Laden, l'onda lunga dei movimenti del mondo arabo, e l'apparente (meglio essere attendisti) conciliazione fra Hamas e Al Fatah. Indicativo che in tutto questo movimento Israele sia, tutto sommato, relegato al ruolo di spettatore che ancora non sa bene come entrare in scena. Anche in questo caso è difficile che la situazione si risolva in breve tempo, ma di sicuro questi tre elementi sono abbastanza nuovi, imprevisti e di ampia portata da rimescolare tutte le carte in tavola quel tanto che è sufficiente per rompere la stasi asfissiante che si era instaurata ultimamente, e direi che un po' d'aria nuova ci voleva. Col tempo, poi, per Israele sarà più difficile invocare la scusa del terrorismo per giustificare il proprio comportamento rigido.

  • Nordafrica: come qualcuno ha commentato, è un chiaro segno dei tempi il fatto che - pur in diversi modi e con diversi esiti nei vari paesi del Maghreb e del medio oriente - le rivolte arabe hanno ottenuto in poche settimane ciò che Al Qaeda non era riuscita ad ottenere in dieci anni. Non si sono viste bruciare bandiere americane o di Israele, e i motivi di protesta - lavoro, pressi dei beni di prima necessità, corruzione, assenza di controllo sui leader, situazioni repressive - erano decisamente laici. E' chiaro che l'integralismo islamico attira sempre meno simpatizzanti in quelle regioni. E da qui deriva un altro elemento: ormai un indebolimento delle organizzazioni terroristiche toglie ai regimi di questa regione ogni pretesto per continuare con stati di emergenza trentennali, repressioni draconiane, e così via, in modo simile a come ho detto per Israele.

  • Europa: L'Europa di oggi è palesemente in crisi di identità, e a mio parere lo resterà finché gli unici motivi di unificazione resteranno essenzialmente economici - specialmente adesso che i vari paesi in crisi di debito fanno affidamento sulla massa critica dell'Europa per non affondare. Quanto poi alle soluzioni adottate dalle istituzioni finanziarie europee, se siano davvero in grado, o - peggio - se siano veramente architettate per risolvere i problemi economici, è cosa tutta da vedere.
    Ma stavo parlando di identità. A dire il vero non amo il termine per due motivi: il libro di Amartya Sen e una sinistra assonanza con "identico". Prima di tutto ricordiamo sempre che quelli che si imparentano nello stesso gruppo, col susseguirsi delle generazioni cominciano a diventare tarati, mentre spesso le persone più interessanti e con le idee più innovative provengono da una mescolanza, che sia di culture o di lingue o di pelli.
    L'Europa, ancora oggi, non sa bene chi è. Fino ad ora il clima di terrorismo internazionale degli ultimi dieci anni l'ha dispensata dal farsi domande troppo approfondite su di sé, perché un nemico comune crea unione, ma è di un genere poco duraturo se, mancando di cogliere l'occasione di essere "nella stessa barca", gli stati non avviano cooperazioni che vadano oltre l'aspetto della sicurezza, la moneta o l'impegno militare. A quando l'unificazione del sistema scolastico, sanitario, infrastrutturale, industriale, culturale, e magari addirittura giuridico e fiscale, tanto per fare qualche esempio? Avviare un percorso di avvicinamento comune sarebbe stato una risposta potente all'estremismo. Avrebbe dato l'esempio: è possibile stare insieme anche se si è diversi - io rilancerei: si può stare insieme proprio perché si è diversi.
    Mentre gli ultimi eventi in Pakistan rischiano (col tempo) di mettere l'Europa di fronte a sé stessa, con la possibilità che la risposta che troverà sarà un'identità (qui davvero sinistramente "identica") legata a un certo sciovinismo misto a radici cristiane, i nodi vengono al pettine, gli stati litigano intorno alle percentuali come nelle coppie sull'orlo della separazione e forse un nuovo medio oriente sta cominciando ad arrivare, ancora indistinto, e con esso un nuovo mondo musulmano, una nuova Africa e immancabilmente un nuovo tutto-il-resto. Questo è il momento per domandarsi seriamente se si vuole proseguire con il progetto europeo (per me sì) e a quel punto smetterla di girare a vuoto e farlo davvero. Voglio proprio vedere che posizione prenderebbe il governo europeo sul conflitto d'interessi come quello che c'è in Italia.

  • Stati Uniti: l'euforia di questi giorni per l'uccisione di Osama a mio parere è esagerata, e per due motivi: uno è l'ingannevole convinzione che basti uccidere per risolvere - a volte in questo modo si creano dei martiri o addirittura dei miti, e in ogni caso è un errore pensare che basti sparare per risolvere tutto, come gli americani hanno il vizio di credere; l'altro motivo è che ovviamente il terrorismo internazionale non finisce con Osama, anzi nei prossimi mesi probabilmente assisteremo a colpi di coda di un'organizzazione che si sente messa all'angolo.
    Ma al di là di queste precisazioni, sicuramente la fase dell'eccezionalità - anche giuridica - della "guerra al terrore" iniziata con Bush sta per finire, così come l'alleanza col Pakistan. Già ora ci si comincia a chiedere cosa si sta ancora a fare in Afghanistan, e tutti questi sviluppi tenderanno a smontare le argomentazioni della destra americana, considerando anche che l'america in questo periodo è concentrata soprattutto sul fronte interno, sull'economia, e la classe dirigente stava aspettando l'occasione per svincolarsi dalla guerra, sia per ragioni di budget che politiche. Questo successo - per quanto relativo - potrebbe portare un certo vantaggio ad Obama se, entro le elezioni presidenziali, riuscisse a portare a casa un buon numero di truppe, ma penso che il maggior vantaggio sia dal punto di vista del "framing", secondo il termine coniato da Lakoff: non c'è più una situazione del genere "America contro islam" ma è diventata "America contro un gruppo di estremisti sempre più isolati anche all'interno dei loro paesi". La retorica dei neo-conservatori sta diventando sempre più obsoleta se confrontata con la realtà, mentre si assiste a una divisione della destra fra tea-party e repubblicani "moderati", probabilmente destinata ad accentuarsi. La politica di Obama della "mano tesa" bipartisan verso i repubblicani, pur con i suoi difetti e i forse eccessivi compromessi, forse è più furba di quanto si creda: obbliga gli avversari a dividersi fra "oltranzisti" e "compromessi" e questo sarà decisivo nelle elezioni del 2012. Probabilmente la maggioranza degli americani voteranno per Obama pur senza troppa convinzione, principalmente per l'economia (e poco conta che non sia lui il responsabile), ma altrettanto inorriditi dalle tesi estremiste dei tea party e delusi dall'inconsistenza del GOP, in piena crisi dopo Bush.
    L'America è sempre stata particolarmente sensibile alle figure emblematiche, caricate in negativo come in positivo di un potere simbolico ben più grande di quello effettivo; e la fine di Osama - un'icona come pochi, bisogna ammetterlo, principalmente grazie ai media americani e ai nostri - li costringerà nel modo più radicale a ripensare gli ultimi dieci anni: cosa siamo diventati? Chi era il nostro vero nemico? Quanti abusi di potere abbiamo lasciato correre in nome della sicurezza e dell'emergenza? E quanti fra essi erano giustificati? Che pensare dei manifestanti civili in piazza Tahrir, che ottengono in alcune settimane, contro un uomo, Mubarak, fino a quel momento appoggiato dall'America, quello che l'America non ha ottenuto in dieci anni e due guerre? Il ricatto di questi ultimi dieci anni, "Dittature o terrorismo" si è dimostrato infondato e quindi decade automaticamente.


Tutto questo non si evolverà nel giro di qualche mese, naturalmente - tuttavia penso che l'arrivo di Obama alla presidenza sia stato l'inizio della fine di un certo sistema internazionale, e che la fine di Bin Laden ne sia l'episodio conclusivo. Andiamo incontro forse solo ora a un nuovo periodo, come lo sono stati la guerra fredda o il maccartismo o la guerra al terrorismo. Ci aspettano nuove minacce, anche queste globali, come i mutamenti climatici o una tecnologia che può sfuggire di mano; e a dire il vero non è che prima non ci fossero, solo che, abbagliati da una minaccia minore ingigantita dalla lente dei media, non vedevamo quella vera, che nel frattempo come un tumore ha avuto modo di ingrandirsi e forse ora il volano è già troppo veloce per poterlo fermare senza scottarsi le dita.

lunedì 17 gennaio 2011

Maghreb in movimento

La Tunisia sta vivendo momenti molto concitati, e (pur se in negativo) anche l'Egitto sembra vivere momenti di svolta - del resto la solidarietà della società civile egiziana verso i Copti mostra che in parallelo alla "svolta estremista" esiste anche una "svolta progressista" probabilmente più vasta della prima, che però ha il vantaggio di essere più visibile, grazie ai nostri media. Probabilmente assisteremo a una propagazione delle rivolte in altre zone del Maghreb, specialmente nei paesi governati in modo più rigido e corrotto. Ovviamente l'innesco è arrivato con la crisi economica e l'aumento dei prezzi dei beni primari, che è andato a sovrapporsi con un'alta disoccupazione. Ma - dicevo - è stato appunto solo l'innesco per una carica che era stata piazzata da tempo, a forza di regimi autoritari, istruzione bassa - non solo per le donne, corruzione, arbitrio nell'esercizio del potere altre cose così. A quanto pare - fino ad ora, almeno - la popolazione si è dimostrata più avanti dei propri governanti, e se la transizione avverrà in modo "regolare" (tradotto: senza che i militari si mettano di mezzo e libere elezioni per scegliere un nuovo governo) ne avranno tutti da guadagnare, noi europei compresi.
Infatti, se partisse una effettiva democrazia in tutto il Maghreb - o almeno in una buona parte - anche l'economia, nel medio termine, superata questa crisi, dovrebbe funzionare meglio, il che significa che in futuro - magari anche con l'aiuto dell'Europa per accelerare questo processo - il Nordafrica potrebbe assorbire almeno una parte dei migranti provenienti dall'Africa sub-sahariana. Per ottenere questo, però, è necessario un funzionamento democratico delle istituzioni, perché è risaputo che le dittature e i regimi autoritari portano a cattive condizioni economiche e concentrazione della ricchezza, mentre le democrazie portano a prosperità e distribuzione della ricchezza. In questa transizione è importante il supporto degli Stati democratici.
Questo potrebbe dare un nuovo corso alla storia dell'Africa: per la prima volta la generazione del reddito viene dall'interno del proprio territorio e non da un altro continente. Comincerebbe a stare sulle sue gambe, come del resto in molti altri paesi sta già cominciando a fare. Tradotto: aspettiamoci che tra dieci anni al massimo l'Africa sarà sulla pista di decollo, magari non come la Cina ma come il Brasile sì. Preparatevi.

mercoledì 12 novembre 2008

Götterdämmerung - pt.2

Il collasso del sistema bancario americano, che si sta tirando dietro quello del resto del mondo, assume l'aspetto di una Nemesi. Giuseppe Turani, giornalista di Repubblica, nel suo blog dà un'analisi della situazione che sembra una favoletta per bambini. Sembra come un giocatore d'azzardo che abbia sviluppato dipendenza dal gioco e all'improvviso scopra che il suo casinò abituale è stato chiuso per traffici poco puliti; e lui, come chiunque abbia qualche dipendenza, è lì a costruirsi illusioni e castelli per nutrire la speranza che riapra presto, che si tratti solo di sistemare qua e là le due-tre cose che non vanno e poi via, di nuovo tutto come prima. Ma quello che irrita di più è  quell'atteggiamento da "dai retta a me che queste cose le so, andrà così e cosà e vivranno tutti felici e contenti". Dalle parole trapela l'ordine: devi fidarti di quello che ti dico io perché te lo dico io. Non esibisce fonti o dati a sostegno per le sue profezie, ma come gli Scolastici di un tempo, asserisce che non può andare che così, in base ai dogmi del Mercato e ai loro postulati. Come i cardinali con cui dibatteva Galileo, i quali rifiutavano di guardare nel cannocchiale perché tanto le Scritture bastavano loro per sapere com'era fatto il mondo: e se la realtà è diversa, tanto peggio per la realtà, come disse qualcuno. Peccato che siano proprio i dogmi quelli che stanno crollando.

Quello che l'autore non comprende, è che quello che sta succedendo non è un inciampo come gli altri, questo entrerà nella storia. Non tanto per la pesantezza quanto per le conseguenze. C'è stato chi lo ha paragonato alla caduta del muro di Berlino - vale a dire, l'inizio della fine. O all'11 settembre. Si parlerà di un "prima" e di un "dopo". é conclusa un'era che era cominciata col binomio Reagan-Thatcher negli anni '80. Siamo talmente intrisi dei dogmi del mercato che nel nostro vocabolario non troviamo parole per nient'altro. Come sarà "dopo"? Non riusciamo neanche a figurarcelo soprattutto perché i termini che siamo abituati a usare non saranno più adatti per il mondo nuovo. Come i Berlinesi dell'est, che sapevano di non aver più davanti un muro ma non sapevano, se non vagamente, che mondo avrebbero trovato di là da quel muro. Penso che nel corso degli anni cambierà il modo di pensare, la prospettiva dalla quale osserviamo il mondo, le parole con cui lo raccontiamo. Forse ci sarà l'opportunità di costruire qualcosa di nuovo, ma solo se avremo altrettanto chiaro quello che vogliamo creare quanto lo è già quello che vogliamo distruggere.

Come sappiamo, la parte più importante del debito americano è coperta dalla Cina, ufficialmente il 40% circa ma probabilmente anche di più, forse fino al 60%. Ora, i Cinesi nei prossimi mesi avranno probabilmente in mano la scelta di decidere cosa fare del loro credito verso gli USA. Potrebbero decidere di vendere le loro obbligazioni governative per allontanarsi dal dollaro, ritenendolo un investimento ormai a rischio, causando una catastrofica corsa al ribasso dei titoli del tesoro americani sul mercato mondiale, o tenerle e anzi acquistarne altre per aiutare l'economia americana. Probabilmente faranno questa seconda scelta, perché se l'economia americana collassasse del tutto i produttori cinesi perderebbero d'un colpo il loro mercato di sbocco più importante e anche l'economia cinese si arresterebbe. Potrebbero decidere di puntare sul mercato interno, sulla propria classe media, ma rischia di essere una scelta prematura perché ancora non ha raggiunto una massa critica in termini di percentuale sufficiente della popolazione, da poter far funzionare il sistema industriale cinese; e perché gli asiatici hanno una maggiore propensione al risparmio rispetto agli occidentali. E poi c'è un altro fattore: molte economie asiatiche hanno una forte dipendenza dall'esportazione: in cima Vietnam Taiwan e Corea del sud con circa il 70% del PIL, più equilibrata la Cina col 40% circa, quasi fortunata l'India con il 21% (fonte: Time, 13 ottobre 2008, pag. 28, citando l'Asian Development Bank). Probabilmente nei prossimi mesi vedremo annaspare i grossi esportatori, mentre i paesi che hanno puntato più sul mercato interno faranno un salto in avanti verso stili di vita occidentali.

Insomma, probabilmente già nel prossimo G20 le economie asiatiche sosterranno ancora il sistema occidentale, ma naturalmente la cosa non sarà per grazia. Il prezzo che l'occidente pagherà per continuare a esistere sarà in termini di potere economico, quindi politico e infine militare. Il mondo diventerà finalmente multipolare, mentre le economie emergenti si trasformeranno in economie mature, per cui gli abitanti di Pechino avranno un profilo di consumi simile a quello di un berlinese o di un parigino - o forse anche più alto.

Questo però, in prospettiva nel medio termine costituisce una minaccia allo status quo del partito unico in Cina e ai vari regimi autoritari a vario merito in estremo oriente. Una classe sociale che approfondisce gli studi, viaggia, si abitua a navigare in rete, s'incontra coi propri simili nel tempo libero, col passare del tempo percepirà il sistema politico come sempre più stretto e inadeguato e reclamerà più spazio. Nascerà una società civile anche là (processo già iniziato, del resto). In sostanza, potrebbe essere l'occasione - specialmente adesso con l'elezione di Obama - di vedere entrambi questi due stati, gli USA e la Cina, costretti a seppellire i loro rispettivi dogmi, il Mercato e il Partito, e finire per assomigliarsi un po' di più.

giovedì 6 marzo 2008

Il vero volto dell'Italia

Anche se non mi è ancora chiaro il motivo, tuttavia sto notando che una novità emersa da questa ultima campagna elettorale: mi pare che per qualche misterioso, paradossale motivo, i vari partiti e raggruppamenti stiano finalmente mostrando ciascuno il proprio vero volto. Mi spiego meglio.

Dopo la caduta del muro di Berlino e ancor più dopo la crisi di Tangentopoli, i partiti più importanti, nel tentativo di sopravvivere, avevano finito per convergere e assomigliarsi sempre più, almeno a parole, lasciando da parte le concezioni filosofiche specifiche e differenti da cui erano stati fondati, per adottare - con sfumature leggermente differenti - come dogma di fede il concetto del "libero mercato". Per tutti i partiti l'homo oeconomicus è diventato il centro dell'interesse e dell'attività politica - e per la maggior parte è l'unico aspetto d'interesse; sembra anche che le soluzioni ai problemi del Paese non siano diverse a seconda dei partiti, ma che siano le stesse per tutti: privatizzare, liberalizzare, deregolamentare, flessibilizzare.


Con la campagna elettorale in corso, invece, mi pare che ogni gruppo politico stia mostrando il proprio vero volto: da Ferrara che vuole porre una moratoria sull'aborto e in generale sfoga su "Il foglio" le sue pruderie neocon più sfacciate, ai partiti neo-DC che invocano apertamente una maggiore influenza della chiesa nella politica (come se non ce ne fosse oggi), a Casini & C. che attacca apertamente Berlusconi dopo anni di sodalizio, alla Sinistra arcobaleno che esplicitamente propugna l'abolizione della legge 30 e l'investimento in energie alternative, alla Destra della Santanché che definisce Fini un rinnegato e prosegue nel suo oltranzismo da saluto romano, al PdL che dice che il lavoro precario è stato un successo e va trasformato da esperimento a tempo in sistema permanente, fino al Partito Democratico di Veltroni, che recentemente ha detto che, a parer suo, la lotta di classe non esiste, o comunque è qualcosa di anacronistico, e candida insieme un operaio e un dirigente di Confindustria. In particolare il PD sta avvicinandosi al centro sia nel rapporto con il mondo del lavoro che nel rapporto con la chiesa, e in prospettiva l'unica cosa che potrebbe differenziarlo dal PdL sarebbe l'assenza di conflitto di interesse - cosa che peraltro non è di poco conto.


Questa inattesa "chiarezza" non può che essere un fatto positivo, ma bisogna fare attenzione a non interpretarla come un segno di maturità della nostra classe dirigente: lo vedo casomai come il risultato di una somma di paradossi della politica italiana, primo fra tutti la legge elettorale attuale, che sta portando tutti a comportarsi da "cani sciolti": ognuno per sé, poi quando le elezioni avranno chiarito i rapporti di forza, inizieranno i negoziati, le alleanze, etc.


Il dubbio casomai è: gli elettori sono pronti ad approfittare di questa inaspettata "esplicitezza"? Mi pare di no: ci si schiera ancora per partito preso, come i Senesi durante il Palio, senza conoscere davvero le conseguenze della scelta. Ho idea che dopo il voto, le sorprese saranno molte, e altrettante le proteste. Mi pare che gli elettori, storditi da televisione, titoli sensazionalistici, pubblicità, consumismo, mode, non siano in grado di entrare nel merito delle questioni in gioco; e questo proprio ora, quando si dovrebbe decidere a sangue freddo e con lucidità l'impostazione dell'Italia per gli anni a venire, che in buona parte deciderà la sua collocazione nello scacchiere internazionale. Invece intorno a me vedo frotte di forcaioli arrabbiati, che abbaiano gli slogan e le frasi fatte che leggono sulla stampa e ascoltano in TV: ma è la rabbia dell'impotente, di chi non capisce e così pensa che basti mostrare i muscoli e il muso duro per risolvere tutto. Lo stesso atteggiamento testosteronico degli americani. La società e il mondo presenti hanno raggiunto una complessità e sono formati da una rete di influenze reciproche e di relazioni talmente fitte che ormai nessuno può pretendere di essere in grado di abbracciare il quadro nel suo insieme. Eppure è proprio il bifolco che, istigato da personaggi populisti, si illude di aver già capito tutto, di avere pronte in tasca le soluzioni, "bisogna prendere i giudici e randellarli" ho sentito dire a qualcuno. Quando vedo qualche imbecille, qualche ignorante, qualche sempliciotto mi viene sempre da pensare: "E questo cretino ha purtroppo il diritto di votare, di guidare e di tirar su figli. Quanti danni!...". Purtroppo gli italiani, da ingoranti e disinformati che sono, per risolvere i problemi del paese continuano a votare proprio le persone che ne sono la causa o che lucrano abbondantemente su di essi. Comincio a pensare che gli italiani si meritino i governi che hanno.

martedì 8 gennaio 2008

"l'aereo decolla solo con vento contrario"

Recentemente chiacchieravo con la mamma di un mio amico; è di San Francisco ma vive qui da molti anni e insegna inglese: le facevo notare questo vizio tutto italiano che hanno le élites - e in generale chi ha un qualsiasi potere su qualcun altro, per i motivi più vari - di frapporre una quantità di ostacoli e bastoni fra le ruote a chi sta compiendo dei passi in avanti per sè, come conquistare una laurea, o ottenere un incarico interessante sul lavoro, o anche solo parlare col sindaco. Specialmente se si rendono conto che il giovane che hanno davanti è particolarmente promettente, e costituisce quindi una minaccia seria alla loro rendita di posizione. Per la mentalità italiana, il potere può essere solo "rubato", strappato con la forza, mai ceduto volontariamente ("il potere l'ho lasciato dalle mani" - F. De André). Nel caso meno cruento, viene ereditato, il che equivale a mantenere la situazione. L'atteggiamento è quello di chi ti dice "Vieni a prendertelo se ci riesci!" - ben sapendo di essere inaccessibile. Ufficialmente la giustificazione prende varie forme, tipo "selezione del migliore", "stimolo a dare di più", "l'aereo decolla solo con vento contrario" (vero). Più semplicemente, sono allegre eredità di due tradizioni italiane di lunga data: il fascismo e la mafia. Da una parte, infatti, per la mentalità fascista il potere giustifica sè stesso, nel senso che il semplice fatto di avere del potere fa "aver ragione" a chi ce l'ha (si pensi alle varie gag, o a Fantozzi, in cui il tronfio commendatore di turno viene ammansito dandogli ragione su qualunque cosa). Più uno è potente, più "ha sempre ragione" per definizione, in maniera intrinseca, e quindi ha perfettamente tutti i diritti di fermare con ogni mezzo chi tentasse di scalzarlo; e poi, quando qualcuno ci fosse riuscito, avrà gli stessi diritti e la stessa ferocia di quello che l'ha preceduto - logico, dopo tutta la fatica che gli è costato arrivare fin lì. Insomma: chi vince prende tutto e spella vivo chi ha perso - non ha letteralmente il diritto di esistere. Ricordo ancora un babbeo che conobbi all'università: "...perché i padroni hanno sempre ragione, altrimenti non sarebbero i padroni: bisogna sempre fare come dicono loro, perché capiscono cose che noi non sappiamo. Mio padre, ad esempio, era un crumiro e fiero di esserlo; gli hanno bruciato l'auto 2 volte". Stavo per linciarlo. Comunque questa mentalità rende estremamente difficile il ricambio generazionale, l'arrivo di idee fresche, di gente dinamica; si tende alla stasi, alla fissità, con una classe dirigente di età avanzata che comanda una società immobile. Questa mentalità ha qualcosa in comune anche col sistema mafioso: dopotutto, l'unico modo per prendere il posto di un boss è ucciderlo o farlo arrestare. Il boss lo sa e sta molto attento a non fornire occasioni. In generale, questo modo di concepire i rapporti è tipico di società fortemente gerarchizzate, tradizionaliste e reazionarie, poco propense ad evolversi e organizzate per la stabilità in tempi storici di scarsi cambiamenti. L'emblema tipico che mi viene in mente per questo tipo di figure è la classica miniatura di qualche codice medioevale che ritrae il professore su uno scranno altissimo, simile a un trono, che dispensa il sapere agli studenti-sudditi; il flusso è a senso unico, da lui a loro.

Ma i nostri non sono tempi immobili. Le cose cambiano con un ritmo intenso: cambiano le regole del gioco, i rapporti di forza, le priorità, i modi di entrare in contatto con gli altri, la società stessa. Oggi in Italia sembra esistere un rapporto inversamente proporzionale fra potere e adeguatezza allo stesso: chi ha più potere sono anche le persone meno aggiornate sulla modernità, mentre quelli che hanno le maggiori competenze sono tenuti lontano dalle stanze dove si decide.

Un fattore che credo decisivo, e che mi sembra pochi hanno notato, è che questa classe politica, dal punto di vista anagrafico (la stessa generazione di mio padre, 1934) è nata sotto il fascismo, e anche se erano magari troppo piccoli per assorbirlo direttamente, lo hanno fatto tramite i loro genitori e insegnanti, tutti nell'età della ragione all'epoca. Anche nel dopoguerra, un docente universitario che avesse avuto 50 anni nel 1950, si è trovato immerso nel fascismo durante i suoi anni della formazione e dell'adolescenza, il periodo in cui si è più permeabili. Infatti la società e la scuola italiane degli anni 50 erano estremamente autoritarie, conformiste e gerarchiche. I risultati di questo tipo di educazione li vediamo oggi nella nostra classe dirigente (non solo politica): menti rigide, incapacità non già di prendere decisioni appropriate ma anche solo di raccapezzarsi, in sostanza vivono nel passato e ragionano secondo schemi non più funzionati oggi.

È come gli artigiani di una volta: il vecchio conosceva bene il suo mestiere, i trucchi e le furbizie, ma ne era gelosissimo e l'apprendista doveva "rubarlo", mentre il maestro cercava di ostacolarlo. Oggi ho saputo di operai esperti che si comportano allo stesso modo con i nuovi, e così quando i giovani magari mettevano le mani nei macchinari per cambiare un pezzo (il trucco c'era, ma restava segreto), qualcuno ci lasciava le dita. Oggi la conoscenza funziona solo se è condivisa, solo nei gruppi di lavoro più aperti possibile. Essere gelosi di ciò che si sa/si ha (in sintesi, del proprio potere) equivale a scavarsi la fossa.

Che fare?... Per quanto inetti (è forse la parola più calzante) o criminali, i nostri dirigenti hanno il potere e lo tengono stretto, come l'artigiano anziano di una volta. È vero che per decollare è necessario (o almeno aiuta) un vento contrario, ma qui abbiamo a che fare con la Bora. Penso che l'unica cosa che si possa realmente fare sia lasciare agire il tempo: da una parte abbiamo dei vecchi sempre più decrepiti, dall'altra abbiamo tutto il nuovo. Il risultato potrà essere tardivo ma è inevitabile: come nel detto cinese, aspetteremo il loro cadavere seduti all'ansa del fiume. Semmai, il vero nodo della questione non è se, o quando, ce ne libereremo, piuttosto la domanda che mi preoccupa è: quando finalmente faremo questo salto in avanti, quanto sarà il nostro svantaggio rispetto alle nazioni che saranno già partite 10, 20, 30 anni prima? E in un mondo così veloce, anche ritardi minimi diventano incolmabili. Pensate alla formula 1, quando due auto sono a 5 centesimi una dall'altra a 250 Km/h, vuol dire che stanno a 70 metri una dall'altra. Mi viene in mente il commento di un giornalista del Time Magazine, ex inviato speciale in Italia, che di recente l'ha definita "Il paese più avanzato del terzo mondo".

venerdì 7 dicembre 2007

Da Italo Calvino, Le Città Invisibili

L'Inferno dei viventi non è qualcosa che sarà, se ce n'è uno è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.

Due modi ci sono per non soffrirne: il primo riesce facile a molti, accettare l'inferno e diventarne parte, al punto di non vederlo più; il secondo [è più difficile] ed esige attenzione ed apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno; e farlo durare, e dargli spazio.

domenica 25 novembre 2007

Götterdämmerung

Lo so, sono ancora molto potenti. Chiaramente ci vorrà del tempo. Forse manterranno un ruolo importante in alcuni aspetti particolarmente difficili, come la ricerca scientifica di alto livello. Ma già ora si intravede la Caduta degli Dei, il declino degli Stati Uniti. Per fortuna non sarà l'apocalisse, anzi probabilmente un'America meno ingombrante potrebbe - nel corso degli anni - dare la stura a una serie di questioni rimaste, diciamo, in sospeso, o meglio in accomodamento provvisorio, e che potrebbero finalmente trovare una sistemazione più consona: dalla questione palestinese a nuove misure oltre il Protocollo di Kyoto, dalla autonomia culturale (film, libri, musica, etc) della periferia dell'impero a un'Europa più autonoma nelle sue scelte, quindi con più potere e - va da sè - più capace di rispondere delle proprie azioni. Ma questi sono solo esempi: la lista sarebbe lunga.


Come "misurare" la potenza di un paese? Se non fossimo di questo pianeta e arrivassimo qui, che sistema useremmo per capire qual è la nazione più potente? I0 penso che un buon sistema possa essere quello di andare a vedere chi crea gli eventi e chi, invece, reagisce ad essi; d'altra parte vale lo stesso anche fra le persone. Se si va indietro, Roma non è caduta semplicemente per le invasioni barbariche di massa: quello fu solo l'ultimo atto, la conclusione di un processo durato qualche secolo. Tutto era iniziato perché ormai l'impero era così esteso che dalla capitale era difficile controllare i confini, sui quali premevano popolazioni desiderose di coltivare i campi, probabilmente rimasti sottoutilizzati dato che nei periodi fiorenti la popolazione si concentra nelle città. Perciò Roma, per evitare grane (vale a dire, invasioni aggressive) decise di concedere in uso quelle terre ai popoli oltreconfine; in cambio chiedeva di sorvegliare i confini stessi da ulteriori estranei. Come bonus, inoltre, si trovava un aumento della produzione agricola che di sicuro non guastava. Questi si insediarono, coltivarono, fondarono villaggi, iniziarono commerci e fecero figli. Col tempo, già dalla seconda o terza generazione parlavano solo latino. alla quarta o quinta ci poteva già essercene qualcuno a Roma, per commercio all'ingrosso o per studio; alla sesta o settima, già ci stavano a Roma per politica o per l'esercito. Alla fine, molti generali erano di origine barbarica (anche perché erano obiettivamente molto più abili, dal punto di vista professionale) e varcarono anche le soglie del potere politico.
Be', prova a rileggere mettendo Washington al posto di Roma, e pensando che ora siamo noi la periferia dell'impero, colonizzata culturalmente dopo la II Guerra Mondiale, con appunto popolazioni che da fuori premono per entrare, pronte a fare i lavori che qui nessuno vuole (ieri i campi, oggi l'operaio), i cui figli hanno l'italiano come lingua primaria, e poi il resto viene da sé. Questo non significa che le infiltrazioni esterne hanno causato lo sbriciolamento dell'impero dall'interno, e che quindi occorre impedirle. Però significa che Roma, di fronte a queste pressioni, all'inizio di tutta la vicenda, forse per la prima volta si è trovata di fronte a un evento decisivo, storico, che non era stato creato da essa, e di fronte al quale si trovava come chi ha il nero negli scacchi: muove per secondo, è condannato a reagire anziché agire. Da quel momento il potere di Roma non ha fatto che scendere.
Ma che cosa aveva causato quella situazione? Paradossalmente, proprio la forza di Roma: era, per definizione, "centro" e le altre regioni erano "periferia". Anche chi non stava nel territorio dell'impero aveva comunque lo sguardo in direzione di Roma, vuoi per commercio, vuoi per politica, vuoi per diplomazia o altro. Roma e le altre sue città erano il punto di riferimento per praticamente tutto, e un sacco di gente ambiva a entrarci. Anche solo entrare nel territorio e viverci, magari diventare cittadini romani, era una prospettiva molto ambita. Avrebbe assicurato una vita più agiata per sé e per i propri figli. Questa stessa capacità di attrazione per le popolazioni, come una calamita, ha portato Roma a subire gli eventi anziché produrli.

E oggi?... Qual è la situazione per gli Stati Uniti?... Mi sembra chiaro che la miopia dell'amministrazione Bush ha portato l'America ad essere sopraffatta dagli eventi, non è più il ciclista in fuga ma è il gruppo che insegue, col fiato corto. L'11 Settembre è stato l'evento che forse ha segnato l'inizio di questo corso, quello che per primo ha messo gli USA di fronte a un fatto a cui dovevano reagire, ma che proprio per questo era già "vincitore" in sé, perché ha "mosso per primo". Da quel momento è stato tutto un inseguimento: Guantanamo, l'Iraq, l'immigrazione dal Messico, l'Iran, la Russia, la svolta sudamericana, la Cina, il protocollo di Kyoto, la questione petrolifera-energetica-situazione mediorientale, il tribunale internazionale per i crimini di guerra, la globalizzazione, le nuove forme di energia e di locomozione, solo per parlare delle questioni principali. Per la prima volta l'America sta diventando "antiquata".

D'altra parte, anche dal punto di vista puramente economico e aziendale, sembrano un gigante dai piedi d'argilla: la favolosa esposizione finanziaria per finanziare la guerra e la "lotta al terrorismo" e per tenere in piedi uno status quo mondiale che favorisca le proprie aziende, risulta così imponente che il governo ha dovuto finanziarsi emettendo buoni del tesoro, che sono stati acquistati in gran quantità dalla Cina che ha un surplus commerciale altrettanto impressionante. La conseguenza è che ormai l'economia americana è in mani straniere, e la cosa è accentuata dal dollaro debole, che avrebbe la funzione di facilitare la esportazione delle aziende americane, ma che favorisce anche l'acquisizione delle stesse da parte di acquirenti esteri. Si comincia anche a discutere se sia il caso di passare all'euro come valuta per il mercato petrolifero, e la crisi dei subprime sta portando conseguenze di larga scala. D'altra parte c'è anche chi dice che l'Iraq volesse proprio commerciare il petrolio in euro, e che sia stata questa la vera motivazione dell'intervento americano. Il fatto che ora, dopo tutto quello che è successo, si torni a parlarne significa in sostanza che il tentativo di porre a tacere la questione è fallito, così come quello di frenare lo sviluppo di energie pulite e di negare il riscaldamento globale.

Essendo abbonato al Time sto seguendo la campagna presidenziale americana da un osservatorio privilegiato, e l'impressione che ne sto traendo è che la vera domanda non è se vincerà un repubblicano o un democratico, ma quale democratico vincerà - e man mano che ci si avvicina al 2008 anche questa domanda sta diventando sempre più scontata. In pratica, sembra quasi di poter dire che il prossimo Presidente sarà chi vincerà le primarie democratiche. I candidati repubblicani sono un insieme di individui improbabili quando non sospetti, anziani, poco dinamici, pochissimo carismatici e con l'aria di essere dei "riciclati" messi lì da qualcun altro, al soldo delle lobby più potenti. Sono finti. Nel partito c'è discordia e indecisione: insistere nella linea dura su tutti i fronti, ignorando i molteplici fallimenti - e creandone altri, o venire incontro ai democratici ammettendo implicitamente il proprio torto? Qualunque cosa sceglieranno, non farà che rafforzare l'area progressista. Si sono messi in un vicolo cieco.

Non è l'America ciò che sta finendo. E' il tipo di vita che gli Americani avevano impostato per sé (e per gli altri) da molto tempo, e di conseguenza anche il modo con cui si rapportavano al resto del mondo. Un mio amico (http://www.nichilista.it/ - anche fra i links) è stato a lungo in America e mi spiegava che il loro territorio è così vasto, sterminato, che un americano può passare tutta la sua vita senza mai uscire dai confini, anche traslocando molte volte, ed è quello che succede a molti. Ci sono film di Spike Lee che raccontano di ragazzi di gang che non vivono più di 40 anni e che per tutta la loro vita non escono dal loro quartiere di Harlem o del Bronx, perché se lo facessero i rivali delle altre gang gli sparerebbero. Nelle cittadine qualunque le notizie vengono dal giornale della contea o dalla radio o TV locale. Già Washington o New York sono lontane; ma Londra, Parigi, Roma, Berlino, Mosca... sono su altri pianeti, visti da lì - e magari i cereali nel loro cucchiaio la mattina vengono proprio da quei pianeti lontani a cui loro succhiano il sangue senza neanche saperlo. Ecco, quello che credo di aver capito (ho parenti americani e sono stato là) sono due cose: che l'America, vista da dentro, è come una madre premurosa che nutre (anche troppo) e protegge i suoi figli e li fa star bene, ma lo fa poggiandosi sul sangue e sulla sofferenza dei figli degli altri, e anche sul pianeta stesso. e che l'America, vista da dentro, è un mondo a sé stante, una incredibile gigantesca astronave che contiene tutto quel che può servire, dai paesaggi ai climi più disparati, dalle città ai piccoli villaggi, ogni tipo di persone e di incontri e situazioni, e cose da comprare e novità tecnologiche e posti (interni ovviamente) dove andare in vacanza, e un'infinità di tipi di vite possibili e frequentazioni le più diverse. E' talmente varia che non viene neanche voglia di uscire; anzi, se si ha voglia di vedere stranieri niente di più facile, sono loro a visitare il nostro paese, allo stesso modo e per gli stessi motivi per cui una volta tutti convergevano verso Roma. Ma tutto questo comporta almeno uno svantaggio per loro, che riassumerei in questa frase: noi (la periferia) sappiamo di loro molte più cose di quante loro ne sappiano su di noi. Una volta mentre ero là, quando parlando con un tipo gli ho detto che sono italiano, quello mi ha chiesto se qui ci spostiamo con gli elefanti o abbiamo già le auto; io invece, su di loro ad esempio so che giovedì 29 novembre, alle 20 ora della costa est, si è svolto il dibattito dei candidati repubblicani ed è andato in diretta su Youtube. Il punto è che tutto quel loro auto-farsi-pubblicità con i film, le tendenze, le arti, le novità tecnologiche, l'american way of life, ha portato il mondo a puntare gli occhi verso di loro, a scrutare ogni loro movimento, seguirne ogni respiro, vuoi per prenderli come esempio vuoi per distaccarsene; fatto sta che sono il paese più osservato del mondo. E come ho già detto, quest'attenzione non è affatto reciproca. Questo è, guarda caso, proprio la premessa perché accadano dei fatti indipendenti da sè, a cui occorre reagire. Ossia: subire gli eventi anziché generarli. Già adesso, di fatto, nei confronti di Russia, Cina, Venezuela (e quasi tutto il Sudamerica), India ecc, si trovano in posizione di inseguitori col fiato corto, quando non impotenti.
Proprio queste due cose dovranno cambiare - e cambieranno - dell'America. Solo se sapranno avere più rispetto (meno rapine) per gli altri paesi e le altre civiltà, e se avranno più curiosità e apertura per il "mondo esterno", potranno continuare a prosperare ed evitare di fare la fine di Roma. Stiamo andando verso un mondo multipolare, profondamente diverso dal mondo spaccato in due dalla guerra fredda: ogni zona del pianeta farà capo a una certa nazione-guida o a un gruppo di nazioni, con dei valori tipici, un certo modo di vivere e una certa concezione dello stato. Il fatto che ce ne saranno più di due dovrebbe scongiurare contrapposizioni rigide, anzi più ce ne saranno più si potrà parlare di "convivenza di mondi"; a patto che nessuno sia troppo più grosso o potente degli altri...

[PS - Time ha messo MDI, l'auto ad aria compressa (vedi il mio primo post) tra le invenzioni dell'anno!]

martedì 23 ottobre 2007

Non dobbiamo abituarci

Oltre al link del titolo, Vedi anche:
http://www.movisol.org/ulse233.htm

La pagina a cui punta il link del titolo è un filmato un po' inquietante. Si tratta probabilmente di un filmato di repertorio degli anni 50/60 di un esperimento in un poligono militare. Un cannone d'artiglieria viene caricato con una piccola bomba atomica che viene sparata a qualche km di distanza, e fatta detonare. Nonostante sia un ordigno a bassa potenza (i testimoni non sono poi così distanti dall'epicentro, guardate verso la fine quando la telecamera va dall'esplosione agli altri cameraman) non c'è dubbio che il botto è notevole: la vernice sull'auto e sul bus (non certo vicini) prende fuoco per il calore, la tenda s'incendia e i maialini sui supporti vanno arrosto, e poi l'onda d'urto ribalta bus e auto, fa volar via la tenda e fa oscillare il boschetto di pioppi. Questo ad alcuni km di distanza e con un aggeggio non più grande di un'anguria. Ricordi della guerra fredda?...

Non proprio, o almeno non solo. Tutti sono a conoscenza della questione nucleare dell'Iran e in medioriente in generale. Al di là del dubbio se sia davvero un rischio reale o un'altra invenzione di Bush in cerca di pezze giustificative e di Ahmadinejad che "gonfia" la vicenda per fare il "paladino" dell'islam di fronte ai suoi, ci sono notizie dei progetti di riarmo atomico nella regione (http://www.internazionale.it/firme/articolo.php?id=17338) da parte invece di tutti gli alleati degli USA, in barba ai trattati di non proliferazione (firmati ad es. dall'Iran, improbabile possessore, ma non da Israele, possessore accertato di armi atomiche) e a qualunque buonsenso. Sono venuto a conoscenza anche di progetti di abbassare la potenza delle bombe atomiche a 1, 10 100 e 1000 kilotoni, e investire nei progetti di "bunker-buster" (missili capaci di perforare il terreno e il cemento armato per diversi metri prima di detonare) atomici, in modo che il danno all'esterno sia minore e tutta la potenza si scarichi sul vero obiettivo. Ma questi sono solo auto-rassicurazioni da dare in pasto al pubblico perché deglutisca la pillola facendo meno storie. Una bomba da 1 kilotone è equivalente a 1000 tonnellate di tritolo, non contiamoci balle. Il vero rischio è che queste mini-bombe, con quest'immagine di ordigni da poco, "tascabili", passino dal ruolo di deterrenti (come è stato finora) a quello di armi ordinarie da usare alla bisogna con sempre meno scrupoli al diminuire della potenza. Una volta "sdoganate" sul campo di battaglia, si darebbe la stura al loro impiego in tutto il mondo, non più solo alla minaccia di impiegarle. L'unica speranza sarebbe che il paese che la userà per primo, per quanto piccola, si guadagnerà una tale ondata di disapprovazione da parte di tutto il mondo, che pur vincendo sul campo perderebbe la faccia.

venerdì 19 ottobre 2007

"Canto del servo pastore" di Fabrizio De André: un'analisi critica


Dove fiorisce il rosmarino
c'è una fontana scura
dove cammina il mio destino
c'è un filo di paura
qual'è la direzione
nessuno me lo imparò
qual'è il mio vero nome
ancora non lo so.

Quando la luna perde la lana
e il passero la strada
quando ogni angelo è alla catena
ed ogni cane abbaia
prendi la tua tristezza in mano
e soffiala sul fiume
vesti di foglie il tuo dolore
e coprilo di piume.

Sopra ogni cisto da qui al mare
c'è un po' dei miei capelli
sopra ogni sugara il disegno
di tutti i miei coltelli
l'amore delle case
l'amore biancovestito
io non l'ho mai saputo
e non l'ho mai tradito.

Mio padre un falco mia madre un pagliaio
stanno sulla collina
i loro occhi senza fondo
seguono la mia luna
notte notte notte sola
sola come il mio fuoco
piega la testa sul mio cuore
e spegnilo poco a poco.

Il brano fin dal titolo, e poi anche nel testo per elementi di somiglianza che verranno approfonditi, richiama abbastanza palesemente il "Canto di un pastore errante dell'Asia" di Giacomo Leopardi. Si compone di quattro strofe, ognuna a sua volta bipartita in due gruppi di quattro versi ciascuna, e in cui tale divisione è sottolineata musicalmente da un cambio di tonalità che cade esattamente a metà strofa, tra il quarto e il quinto verso (di ciascuna). Mentre i primi quattro versi fanno da premessa, gli altri quattro assumono toni elegiaci per così dire, a causa della loro maggiore carica emotiva, e sono i principali portatori di significato all'interno della strofa.

Di queste quattro strofe, si può osservare anzitutto come la prima, la terza e la quarta siano essenzialmente dichiarative, in sostanza descrittive; la seconda invece in questo si dimostra differente, in quanto contiene un insegnamento, un suggerimento di vita; è anche l'unica in cui si rivolge direttamente all'ascoltatore - "prendi la tua tristezza..." con un effetto simile a un attore che guardi nella macchina da presa senza che sia in corso una ripresa in soggettiva. Considerata questa sua caratteristica, è stridente l'anomalia di questa strofa rispetto al topos degli interventi - diciamo così - "edificanti" espliciti che un autore può inserire nella sua opera - anche se nella sua forma più esplicita appartiene alle usanze del passato (Manzoni ad esempio), che in genere comparivano più facilmente come chiusura della composizione, quasi a sfruttare come prova e premessa tutto ciò che le ha precedute nel testo, e a suggellare il tutto con una considerazione che al tempo stesso riassume e dà senso al tutto. Qui invece la strofa-chiave, l'unica diversa e forse la più bella, compare per seconda. Perché non è stata messa per ultima? Ritengo che l'ipotesi più probabile sia che De André volesse esplicitamente rifuggire dall'apparire come un "maestro" saccente, e quindi ha "nascosto" il messaggio all'interno del pezzo, quasi a metterlo fra parentesi, con modestia, ma con un effetto forse anche più dirompente in chi non è distratto; tanto più che De André raramente nel corpus dei suoi lavori si rivolge direttamente all'ascoltatore con la seconda persona (sarebbe necessaria un'indagine specifica nell'opera omnia per poterlo quantificare con certezza, ma a mente ricordo solo l'ultima strofa de "La città vecchia" - e anche in quel caso è la più "intensa" e quella che contiene il messaggio politico principale, ma compare "classicamente" alla fine). Ha anche la particolarità di contenere una sola rima, "fiume/piume": evidentemente l'autore era più interessato al messaggio che all'estetica formale.
Il mimetismo "a scopi di modestia", come l'ho definito prima, è aiutato, per così' dire, dalla brevità della pausa fra una strofa e l'altra, e dal netto cambio di argomento nell'attacco della terza strofa. Questo costringe l'ascoltatore a rivolgere subito l'attenzione a nuovi elementi, lasciando cadere una frase su cui probabilmente si sarebbe soffermato (altro motivo per cui usualmente si mettono in fondo). Altro topos legato a questo accorgimento mimetico, è quello legato alla conoscenza che nella sua forma più approfondita è nascosta, di tipo "massonico" e iniziatico, per cui il maestro la trasmette in forma implicita, nascosta fra le pieghe del discorso principale; sta al discepolo più perspicace (è quindi una strategia che seleziona le menti più acute) cogliere il vero messaggio, che è quello nascosto.

Restando all'interno della stessa seconda strofa, ma parlando del merito del messaggio, le prime quattro strofe - come già accennato - sono la premessa (infatti, anche se la seconda è diversa dalle altre tre per i motivi detti, conserva la medesima struttura globale): quando c'è una situazione oscura, confusa e che disorienta (è nelle notti di foschia che si può vedere un alone intorno alla luna), e come un piccolo passero ci si sente minuscoli rispetto alla lunghezza della strada da fare e che si è perduta, quando i nostri sogni (l'angelo) sono bloccati a terra - in modo quasi paradossale come immagine, direi - dalla dura immanenza della realtà concreta, che lascia ben poco margine di libertà, quando siamo oggetto di aggressività gratuita da parte di un potere (il cane - da guardia?), allora l'ascoltatore è invitato a considerare coscientemente la propria tristezza ("prendi... in mano"), a non far finta che non ci sia, ma a "guardarla" e poi liberarsene soffiandola nel "fiume" (gesto delicato quindi), come a disperderla e diluirla nella vastità del mondo, in quel fiume che sfocerà nel mare di una grandezza indefinita. Nel gesto del soffiare, invece, è evidente la non-violenza dell'atto liberatorio: un gesto semplice e delicato, più adatto per qualcosa di caro e prezioso che non per la tristezza, che è qualcosa di cui ci si vuole liberare; quasi come se questa fosse un dono che si fa al mondo. Ma forse è proprio questo l'accostamento che vuole dare: anche la tua tristezza ti deve essere cara e preziosa: solo così potrai liberartene, solo se la ringrazierai. Diverso il trattamento riservato al dolore: la pratica di spalmare qualcuno di melassa o altra sostanza collosa per poi farlo rotolare nelle foglie e nelle piume era, se ben ricordo, una comune forma di gogna pubblica, anche se non ricordo più per quale colpa (sarebbe interessante scoprirlo); il dolore quindi va messo alla gogna, fatto oggetto di auto-ironia (ma solo dal diretto interessato). Ma qual'è l'essenza della gogna? Sostanzialmente, direi, esposizione pubblica e dissociazione tramite lo scherno. Dunque qui la cosa è più difficile: deridi il tuo dolore pubblicamente, non lasciare che sia lui a condurre. Tuttavia anche in questo caso la frase contiene una sfumatura quasi "affettuosa", simboleggiata da quel gesto del "vestire" e del "coprire". Anche in questo caso quindi è ben lontana l'idea di atteggiamenti violenti o aggressivi. Si invita a "vestire" un dolore - che si presume "nudo" - perché senta meno freddo, usando l'ironia, ma continuando a nutrire una sorta di senso protettivo.

Spostando l'attenzione sulle altre tre strofe, in linea generale si nota l'ambientazione all'aria aperta, parallela a quella del "Canto di un pastore errante" di Leopardi, con la citazione di elementi prevalentemente naturali del paesaggio. La differenza sta proprio nel tipo di paesaggio, che se in Leopardi erano le steppe e le pianure circondate da monti dell'Asia centrale, qui è spiccatamente un'ambientazione mediterranea - il rosmarino, il mare - che richiama direttamente il paesaggio ligure familiare all'autore. Dalla parte delle somiglianze con Leopardi, invece, si possono indicare l'innocente ignoranza del protagonista nella prima strofa, simile a quella del pastore di Leopardi, sottolineata dall'espressione "naif" dello scambio imparare/insegnare tipico delle persone poco istruite; e soprattutto la presenza della luna, che ha un ruolo centrale in Leopardi e che qui compare nell'ultima strofa; altro elemento comune fra la composizione leopardiana e questa, è la condizione di solitudine del protagonista, che però – a differenza del 'canto notturno' – non è motivo per domande inquiete rivolte alla luna, ma accompagna un atteggiamento quasi rassegnato, privo di tensioni verso l'alto o di ambizioni di sorta; questo in definitiva è coerente con la poetica di De André sulla condizione degli ultimi, e più volte ha manifestato ammirazione per chi accettasse il proprio umile stato senza volerlo cambiare (ma con un significato diverso da quello, ad esempio, di un Verga: qui è un ammirare l'umiltà, là è più un deprecare l'ambizione).

Entrando nella disamina più dettagliata e partendo dall'inizio, nella prima strofa si nota subito un parallelo, sottolineato dalla rima, fra il rosmarino e il proprio destino, e poi fra la fontana scura e la propria paura. Il rosmarino riveste qui un ruolo positivo (fiorisce) contrapposto alla scurezza della fontana, che al tempo stesso ne è il sostentamento. Si capisce che il rosmarino può fiorire solo in prossimità della fontana, e probabilmente l'ambiente esterno è arido e ostile; d'altra parte questo tipo di pianta cresce tipicamente in punti improbabili, e riesce a sfidare condizioni di vita stentate. Ne risulta quindi l'immagine di una vita – quella del protagonista – dura e stentata, che sopravvive solo grazie a un elemento allo stesso vitale e inquietante – la fontana scura. La paura è rivolta al futuro – forse il timore che la fontana si secchi? Il “filo” di paura sembra alludere al filo d'acqua che tiene in vita la pianta. Parlare di futuro e accennare alla direzione da prendere (e qui si esce dalla metafora del rosmarino) è un tutt'uno; e coerentemente anche qui c'è la stessa incertezza, il non (voler) sapere cosa sia giusto e cosa sbagliato (altro tema tipico in De André) sottolineando la propria solitudine anche nel passato, il proprio aver dovuto fare ricorso solo alle proprie forze; addirittura il protagonista afferma di non sapere quale sia il proprio vero nome, con un accenno a quella perdita di identità tipica degli “ultimi” di De André. In definitiva, la prima strofa contiene una tensione fra passato-presente (precario) e futuro (ignoto), a cui si allude quando si parla di nome (che viene dal passato) e di non saperlo ancora (con accenno a futuri sviluppi).

Saltando la seconda strofa, che è stata già esaminata, passo alla disamina della terza: il “cisto” risulta essere (fonte: http://www.wikipedia.org ) un piccolo arbusto dai fiori bianchi, tipico della macchia mediterranea, così come lo è la pianta di sughero – il che confermerebbe la natura del paesaggio ipotizzato per il brano – e tipico dei suoli degradati, il che va a conferma dell'ipotesi sull'ambiente stentato a cui si accennava a proposito della prima strofa. In ogni caso, si nota che per entrambi questi elementi l'autore vi lega qualcosa di suo: i capelli o il disegno dei suoi “coltelli”. Di più: su ogni cisto e su ogni sugara è presente una traccia del protagonista. Questa regolarità è simile a quella presente in “Le acciughe fanno il pallone”:

ogni tre ami
c'è una stella marina
amo per amo
c'è una stella che trema

ogni tre lacrime
batte la campana

[...]

ogni tre ami
c'è una stella marina

ogni tre stelle
c'è un aereo che vola
ogni tre notti
un sogno che mi consola

[...]

ogni tre ami
c'è una stella marina
ogni tre stelle
c'è un aereo che vola

ogni balcone
una bocca che m'innamora



in cui si vuole evidenziare la monotonia della vita di stenti di un pescatore, la regolarità in cui il tempo si perde e le giornate diventano identiche, perdendo il loro stesso significato, e la vita si srotola inesorabilmente senza nessuna progressione, nessun telos cui tendere, fino alla morte. Qui invece la regolarità si sposta dall'ambito del tempo a quello dello spazio (“sopra ogni cisto da qui al mare”), restando nell'ambito semantico “spaziale”, richiamato spesso: il non sapere la direzione nella prima strofa, il passero che perde la strada nella seconda strofa, la collina dell'ultima strofa. Qui è il paesaggio a non avere una direzione preferenziale, a essere indistinto agli occhi del protagonista. Come già accennato, ci sono tracce del protagonista sparse per il paesaggio, i suoi capelli e i disegni dei suoi “coltelli”. I capelli in genere sono simbolo di forza (si pensi al mito di Sansone), e perderli coincide in genere con un trauma, un evento negativo (così come lo sbiancare dei capelli); sullo stesso tono si può interpretare la rappresentazione dei coltelli, che a mio avviso andrebbero visti come, per così dire, i coltelli “subiti” più che quelli “usati”, tutti gli eventi traumatici subiti dal protagonista e disegnati sulla corteccia per sfogo, al posto e forse in contrapposizione ai tipici "cuori" che vi si trovano disegnati usualmente. Tanto più che si tratta di disegni di coltelli, non di oggetti effettivi - una allusione alla "pipa" di Magritte?... Comunque, Questa interpretazione confermerebbe il valore negativo di cui è carico il paesaggio agli occhi del protagonista. La seconda parte della strofa è uno slancio di rimpianto del parlante per un tipo di vita che non ha mai conosciuto; anche qui come nella prima strofa si trova una sgrammaticatura ("saputo" per "conosciuto") che ne sottolinea l'ingenua ignoranza. Quello che non ha mai conosciuto è l'amore nella sua forma più "alta", quello che crea famiglie (delle case) e suggellato dal matrimonio (biancovestito, con evidente allusione all'abito da sposa, resa elegantemente con un calco dagli epiteti omerici); ma non ci dice soltanto di non aver mai provato qual tipo di amore, perché aggiunge che non l'ha mai tradito. Qui non bisogna lasciarsi ingannare dall'apparente incongruenza (come si può tradire una persona che non si ha?) perché quello che si intende è la fedeltà all'idea, a quella concezione dell'amore. Da qui si possono dedurre tre cose: che quel tipo di amore è visto come positivo, anzi forse l'unico che abbia un valore; che per coerenza (una forma di fedeltà dopotutto) ha rifiutato altri tipi di amore, più facili ma più "bassi"; e probabilmente la tristezza e il dolore della strofa precedente sono legati allo stesso motivo.

Diversa l'ultima strofa: se le prime tre sono in qualche modo rivolte al passato, a raccontare quali siano le premesse del suo presente, le coordinate in cui muoversi, o una sorta di flashback; l'ultima è esattamente il momento presente del parlante - proprio come nel 'Canto' di Leopardi, che assume il suo significato da ciò che lo precede, non da sé stesso. Un po' come in un film, se nell'ultima inquadratura ci sono due persone che guardano insieme l'orizzonte, per chi entrasse in sala in quel momento non avrebbe nessun significato in sé, mentre per chi ha visto il film è carica di significati emotivi. è presente un accenno ai genitori ormai deceduti, che stanno sulla collina, al tempo stesso la stessa collina di “Non al denaro...” e elemento “altro” del paesaggio, inquadrato per così dire da lontano, non contaminato dal carico negativo del resto. I genitori anzi si sono trasformati in elementi della scena (il falco, il pagliaio) e vegliano sul protagonista (seguono la mia luna) e citando la luna il brano ritorna, in chiusura, ad affiancarsi al “Canto di un pastore errante” (che è un monologo rivolto alla luna) ma il protagonista si rivolge alla notte anziché all'astro, esprimendo somiglianza fra sé e la notte nella solitudine, e il bisogno di un gesto di calore (“piega la testa sul mio cuore”) e al tempo stesso di oblio (“spegnilo poco a poco”).

In definitiva quello che emerge è la disperata staticità della condizione del protagonista: non c'è evoluzione né tanto meno lieto fine; la sua vita è e rimane sempre la stessa, e l'unico conforto può essere solo il ricordo dei genitori o l'oblio di sé grazie alla fusione con la natura, o un gesto di calore, che però non viene da una persona, ma è attribuito (meglio: richiesto) alla natura. E a tal proposito, anche questa natura, pur essendo a prima vista la generosa macchia mediterranea, si rivela un po' fredda e distante, quasi come in Leopardi.