mercoledì 12 novembre 2008

Götterdämmerung - pt.2

Il collasso del sistema bancario americano, che si sta tirando dietro quello del resto del mondo, assume l'aspetto di una Nemesi. Giuseppe Turani, giornalista di Repubblica, nel suo blog dà un'analisi della situazione che sembra una favoletta per bambini. Sembra come un giocatore d'azzardo che abbia sviluppato dipendenza dal gioco e all'improvviso scopra che il suo casinò abituale è stato chiuso per traffici poco puliti; e lui, come chiunque abbia qualche dipendenza, è lì a costruirsi illusioni e castelli per nutrire la speranza che riapra presto, che si tratti solo di sistemare qua e là le due-tre cose che non vanno e poi via, di nuovo tutto come prima. Ma quello che irrita di più è  quell'atteggiamento da "dai retta a me che queste cose le so, andrà così e cosà e vivranno tutti felici e contenti". Dalle parole trapela l'ordine: devi fidarti di quello che ti dico io perché te lo dico io. Non esibisce fonti o dati a sostegno per le sue profezie, ma come gli Scolastici di un tempo, asserisce che non può andare che così, in base ai dogmi del Mercato e ai loro postulati. Come i cardinali con cui dibatteva Galileo, i quali rifiutavano di guardare nel cannocchiale perché tanto le Scritture bastavano loro per sapere com'era fatto il mondo: e se la realtà è diversa, tanto peggio per la realtà, come disse qualcuno. Peccato che siano proprio i dogmi quelli che stanno crollando.

Quello che l'autore non comprende, è che quello che sta succedendo non è un inciampo come gli altri, questo entrerà nella storia. Non tanto per la pesantezza quanto per le conseguenze. C'è stato chi lo ha paragonato alla caduta del muro di Berlino - vale a dire, l'inizio della fine. O all'11 settembre. Si parlerà di un "prima" e di un "dopo". é conclusa un'era che era cominciata col binomio Reagan-Thatcher negli anni '80. Siamo talmente intrisi dei dogmi del mercato che nel nostro vocabolario non troviamo parole per nient'altro. Come sarà "dopo"? Non riusciamo neanche a figurarcelo soprattutto perché i termini che siamo abituati a usare non saranno più adatti per il mondo nuovo. Come i Berlinesi dell'est, che sapevano di non aver più davanti un muro ma non sapevano, se non vagamente, che mondo avrebbero trovato di là da quel muro. Penso che nel corso degli anni cambierà il modo di pensare, la prospettiva dalla quale osserviamo il mondo, le parole con cui lo raccontiamo. Forse ci sarà l'opportunità di costruire qualcosa di nuovo, ma solo se avremo altrettanto chiaro quello che vogliamo creare quanto lo è già quello che vogliamo distruggere.

Come sappiamo, la parte più importante del debito americano è coperta dalla Cina, ufficialmente il 40% circa ma probabilmente anche di più, forse fino al 60%. Ora, i Cinesi nei prossimi mesi avranno probabilmente in mano la scelta di decidere cosa fare del loro credito verso gli USA. Potrebbero decidere di vendere le loro obbligazioni governative per allontanarsi dal dollaro, ritenendolo un investimento ormai a rischio, causando una catastrofica corsa al ribasso dei titoli del tesoro americani sul mercato mondiale, o tenerle e anzi acquistarne altre per aiutare l'economia americana. Probabilmente faranno questa seconda scelta, perché se l'economia americana collassasse del tutto i produttori cinesi perderebbero d'un colpo il loro mercato di sbocco più importante e anche l'economia cinese si arresterebbe. Potrebbero decidere di puntare sul mercato interno, sulla propria classe media, ma rischia di essere una scelta prematura perché ancora non ha raggiunto una massa critica in termini di percentuale sufficiente della popolazione, da poter far funzionare il sistema industriale cinese; e perché gli asiatici hanno una maggiore propensione al risparmio rispetto agli occidentali. E poi c'è un altro fattore: molte economie asiatiche hanno una forte dipendenza dall'esportazione: in cima Vietnam Taiwan e Corea del sud con circa il 70% del PIL, più equilibrata la Cina col 40% circa, quasi fortunata l'India con il 21% (fonte: Time, 13 ottobre 2008, pag. 28, citando l'Asian Development Bank). Probabilmente nei prossimi mesi vedremo annaspare i grossi esportatori, mentre i paesi che hanno puntato più sul mercato interno faranno un salto in avanti verso stili di vita occidentali.

Insomma, probabilmente già nel prossimo G20 le economie asiatiche sosterranno ancora il sistema occidentale, ma naturalmente la cosa non sarà per grazia. Il prezzo che l'occidente pagherà per continuare a esistere sarà in termini di potere economico, quindi politico e infine militare. Il mondo diventerà finalmente multipolare, mentre le economie emergenti si trasformeranno in economie mature, per cui gli abitanti di Pechino avranno un profilo di consumi simile a quello di un berlinese o di un parigino - o forse anche più alto.

Questo però, in prospettiva nel medio termine costituisce una minaccia allo status quo del partito unico in Cina e ai vari regimi autoritari a vario merito in estremo oriente. Una classe sociale che approfondisce gli studi, viaggia, si abitua a navigare in rete, s'incontra coi propri simili nel tempo libero, col passare del tempo percepirà il sistema politico come sempre più stretto e inadeguato e reclamerà più spazio. Nascerà una società civile anche là (processo già iniziato, del resto). In sostanza, potrebbe essere l'occasione - specialmente adesso con l'elezione di Obama - di vedere entrambi questi due stati, gli USA e la Cina, costretti a seppellire i loro rispettivi dogmi, il Mercato e il Partito, e finire per assomigliarsi un po' di più.

giovedì 6 marzo 2008

Il vero volto dell'Italia

Anche se non mi è ancora chiaro il motivo, tuttavia sto notando che una novità emersa da questa ultima campagna elettorale: mi pare che per qualche misterioso, paradossale motivo, i vari partiti e raggruppamenti stiano finalmente mostrando ciascuno il proprio vero volto. Mi spiego meglio.

Dopo la caduta del muro di Berlino e ancor più dopo la crisi di Tangentopoli, i partiti più importanti, nel tentativo di sopravvivere, avevano finito per convergere e assomigliarsi sempre più, almeno a parole, lasciando da parte le concezioni filosofiche specifiche e differenti da cui erano stati fondati, per adottare - con sfumature leggermente differenti - come dogma di fede il concetto del "libero mercato". Per tutti i partiti l'homo oeconomicus è diventato il centro dell'interesse e dell'attività politica - e per la maggior parte è l'unico aspetto d'interesse; sembra anche che le soluzioni ai problemi del Paese non siano diverse a seconda dei partiti, ma che siano le stesse per tutti: privatizzare, liberalizzare, deregolamentare, flessibilizzare.


Con la campagna elettorale in corso, invece, mi pare che ogni gruppo politico stia mostrando il proprio vero volto: da Ferrara che vuole porre una moratoria sull'aborto e in generale sfoga su "Il foglio" le sue pruderie neocon più sfacciate, ai partiti neo-DC che invocano apertamente una maggiore influenza della chiesa nella politica (come se non ce ne fosse oggi), a Casini & C. che attacca apertamente Berlusconi dopo anni di sodalizio, alla Sinistra arcobaleno che esplicitamente propugna l'abolizione della legge 30 e l'investimento in energie alternative, alla Destra della Santanché che definisce Fini un rinnegato e prosegue nel suo oltranzismo da saluto romano, al PdL che dice che il lavoro precario è stato un successo e va trasformato da esperimento a tempo in sistema permanente, fino al Partito Democratico di Veltroni, che recentemente ha detto che, a parer suo, la lotta di classe non esiste, o comunque è qualcosa di anacronistico, e candida insieme un operaio e un dirigente di Confindustria. In particolare il PD sta avvicinandosi al centro sia nel rapporto con il mondo del lavoro che nel rapporto con la chiesa, e in prospettiva l'unica cosa che potrebbe differenziarlo dal PdL sarebbe l'assenza di conflitto di interesse - cosa che peraltro non è di poco conto.


Questa inattesa "chiarezza" non può che essere un fatto positivo, ma bisogna fare attenzione a non interpretarla come un segno di maturità della nostra classe dirigente: lo vedo casomai come il risultato di una somma di paradossi della politica italiana, primo fra tutti la legge elettorale attuale, che sta portando tutti a comportarsi da "cani sciolti": ognuno per sé, poi quando le elezioni avranno chiarito i rapporti di forza, inizieranno i negoziati, le alleanze, etc.


Il dubbio casomai è: gli elettori sono pronti ad approfittare di questa inaspettata "esplicitezza"? Mi pare di no: ci si schiera ancora per partito preso, come i Senesi durante il Palio, senza conoscere davvero le conseguenze della scelta. Ho idea che dopo il voto, le sorprese saranno molte, e altrettante le proteste. Mi pare che gli elettori, storditi da televisione, titoli sensazionalistici, pubblicità, consumismo, mode, non siano in grado di entrare nel merito delle questioni in gioco; e questo proprio ora, quando si dovrebbe decidere a sangue freddo e con lucidità l'impostazione dell'Italia per gli anni a venire, che in buona parte deciderà la sua collocazione nello scacchiere internazionale. Invece intorno a me vedo frotte di forcaioli arrabbiati, che abbaiano gli slogan e le frasi fatte che leggono sulla stampa e ascoltano in TV: ma è la rabbia dell'impotente, di chi non capisce e così pensa che basti mostrare i muscoli e il muso duro per risolvere tutto. Lo stesso atteggiamento testosteronico degli americani. La società e il mondo presenti hanno raggiunto una complessità e sono formati da una rete di influenze reciproche e di relazioni talmente fitte che ormai nessuno può pretendere di essere in grado di abbracciare il quadro nel suo insieme. Eppure è proprio il bifolco che, istigato da personaggi populisti, si illude di aver già capito tutto, di avere pronte in tasca le soluzioni, "bisogna prendere i giudici e randellarli" ho sentito dire a qualcuno. Quando vedo qualche imbecille, qualche ignorante, qualche sempliciotto mi viene sempre da pensare: "E questo cretino ha purtroppo il diritto di votare, di guidare e di tirar su figli. Quanti danni!...". Purtroppo gli italiani, da ingoranti e disinformati che sono, per risolvere i problemi del paese continuano a votare proprio le persone che ne sono la causa o che lucrano abbondantemente su di essi. Comincio a pensare che gli italiani si meritino i governi che hanno.

martedì 8 gennaio 2008

"l'aereo decolla solo con vento contrario"

Recentemente chiacchieravo con la mamma di un mio amico; è di San Francisco ma vive qui da molti anni e insegna inglese: le facevo notare questo vizio tutto italiano che hanno le élites - e in generale chi ha un qualsiasi potere su qualcun altro, per i motivi più vari - di frapporre una quantità di ostacoli e bastoni fra le ruote a chi sta compiendo dei passi in avanti per sè, come conquistare una laurea, o ottenere un incarico interessante sul lavoro, o anche solo parlare col sindaco. Specialmente se si rendono conto che il giovane che hanno davanti è particolarmente promettente, e costituisce quindi una minaccia seria alla loro rendita di posizione. Per la mentalità italiana, il potere può essere solo "rubato", strappato con la forza, mai ceduto volontariamente ("il potere l'ho lasciato dalle mani" - F. De André). Nel caso meno cruento, viene ereditato, il che equivale a mantenere la situazione. L'atteggiamento è quello di chi ti dice "Vieni a prendertelo se ci riesci!" - ben sapendo di essere inaccessibile. Ufficialmente la giustificazione prende varie forme, tipo "selezione del migliore", "stimolo a dare di più", "l'aereo decolla solo con vento contrario" (vero). Più semplicemente, sono allegre eredità di due tradizioni italiane di lunga data: il fascismo e la mafia. Da una parte, infatti, per la mentalità fascista il potere giustifica sè stesso, nel senso che il semplice fatto di avere del potere fa "aver ragione" a chi ce l'ha (si pensi alle varie gag, o a Fantozzi, in cui il tronfio commendatore di turno viene ammansito dandogli ragione su qualunque cosa). Più uno è potente, più "ha sempre ragione" per definizione, in maniera intrinseca, e quindi ha perfettamente tutti i diritti di fermare con ogni mezzo chi tentasse di scalzarlo; e poi, quando qualcuno ci fosse riuscito, avrà gli stessi diritti e la stessa ferocia di quello che l'ha preceduto - logico, dopo tutta la fatica che gli è costato arrivare fin lì. Insomma: chi vince prende tutto e spella vivo chi ha perso - non ha letteralmente il diritto di esistere. Ricordo ancora un babbeo che conobbi all'università: "...perché i padroni hanno sempre ragione, altrimenti non sarebbero i padroni: bisogna sempre fare come dicono loro, perché capiscono cose che noi non sappiamo. Mio padre, ad esempio, era un crumiro e fiero di esserlo; gli hanno bruciato l'auto 2 volte". Stavo per linciarlo. Comunque questa mentalità rende estremamente difficile il ricambio generazionale, l'arrivo di idee fresche, di gente dinamica; si tende alla stasi, alla fissità, con una classe dirigente di età avanzata che comanda una società immobile. Questa mentalità ha qualcosa in comune anche col sistema mafioso: dopotutto, l'unico modo per prendere il posto di un boss è ucciderlo o farlo arrestare. Il boss lo sa e sta molto attento a non fornire occasioni. In generale, questo modo di concepire i rapporti è tipico di società fortemente gerarchizzate, tradizionaliste e reazionarie, poco propense ad evolversi e organizzate per la stabilità in tempi storici di scarsi cambiamenti. L'emblema tipico che mi viene in mente per questo tipo di figure è la classica miniatura di qualche codice medioevale che ritrae il professore su uno scranno altissimo, simile a un trono, che dispensa il sapere agli studenti-sudditi; il flusso è a senso unico, da lui a loro.

Ma i nostri non sono tempi immobili. Le cose cambiano con un ritmo intenso: cambiano le regole del gioco, i rapporti di forza, le priorità, i modi di entrare in contatto con gli altri, la società stessa. Oggi in Italia sembra esistere un rapporto inversamente proporzionale fra potere e adeguatezza allo stesso: chi ha più potere sono anche le persone meno aggiornate sulla modernità, mentre quelli che hanno le maggiori competenze sono tenuti lontano dalle stanze dove si decide.

Un fattore che credo decisivo, e che mi sembra pochi hanno notato, è che questa classe politica, dal punto di vista anagrafico (la stessa generazione di mio padre, 1934) è nata sotto il fascismo, e anche se erano magari troppo piccoli per assorbirlo direttamente, lo hanno fatto tramite i loro genitori e insegnanti, tutti nell'età della ragione all'epoca. Anche nel dopoguerra, un docente universitario che avesse avuto 50 anni nel 1950, si è trovato immerso nel fascismo durante i suoi anni della formazione e dell'adolescenza, il periodo in cui si è più permeabili. Infatti la società e la scuola italiane degli anni 50 erano estremamente autoritarie, conformiste e gerarchiche. I risultati di questo tipo di educazione li vediamo oggi nella nostra classe dirigente (non solo politica): menti rigide, incapacità non già di prendere decisioni appropriate ma anche solo di raccapezzarsi, in sostanza vivono nel passato e ragionano secondo schemi non più funzionati oggi.

È come gli artigiani di una volta: il vecchio conosceva bene il suo mestiere, i trucchi e le furbizie, ma ne era gelosissimo e l'apprendista doveva "rubarlo", mentre il maestro cercava di ostacolarlo. Oggi ho saputo di operai esperti che si comportano allo stesso modo con i nuovi, e così quando i giovani magari mettevano le mani nei macchinari per cambiare un pezzo (il trucco c'era, ma restava segreto), qualcuno ci lasciava le dita. Oggi la conoscenza funziona solo se è condivisa, solo nei gruppi di lavoro più aperti possibile. Essere gelosi di ciò che si sa/si ha (in sintesi, del proprio potere) equivale a scavarsi la fossa.

Che fare?... Per quanto inetti (è forse la parola più calzante) o criminali, i nostri dirigenti hanno il potere e lo tengono stretto, come l'artigiano anziano di una volta. È vero che per decollare è necessario (o almeno aiuta) un vento contrario, ma qui abbiamo a che fare con la Bora. Penso che l'unica cosa che si possa realmente fare sia lasciare agire il tempo: da una parte abbiamo dei vecchi sempre più decrepiti, dall'altra abbiamo tutto il nuovo. Il risultato potrà essere tardivo ma è inevitabile: come nel detto cinese, aspetteremo il loro cadavere seduti all'ansa del fiume. Semmai, il vero nodo della questione non è se, o quando, ce ne libereremo, piuttosto la domanda che mi preoccupa è: quando finalmente faremo questo salto in avanti, quanto sarà il nostro svantaggio rispetto alle nazioni che saranno già partite 10, 20, 30 anni prima? E in un mondo così veloce, anche ritardi minimi diventano incolmabili. Pensate alla formula 1, quando due auto sono a 5 centesimi una dall'altra a 250 Km/h, vuol dire che stanno a 70 metri una dall'altra. Mi viene in mente il commento di un giornalista del Time Magazine, ex inviato speciale in Italia, che di recente l'ha definita "Il paese più avanzato del terzo mondo".