martedì 8 gennaio 2008

"l'aereo decolla solo con vento contrario"

Recentemente chiacchieravo con la mamma di un mio amico; è di San Francisco ma vive qui da molti anni e insegna inglese: le facevo notare questo vizio tutto italiano che hanno le élites - e in generale chi ha un qualsiasi potere su qualcun altro, per i motivi più vari - di frapporre una quantità di ostacoli e bastoni fra le ruote a chi sta compiendo dei passi in avanti per sè, come conquistare una laurea, o ottenere un incarico interessante sul lavoro, o anche solo parlare col sindaco. Specialmente se si rendono conto che il giovane che hanno davanti è particolarmente promettente, e costituisce quindi una minaccia seria alla loro rendita di posizione. Per la mentalità italiana, il potere può essere solo "rubato", strappato con la forza, mai ceduto volontariamente ("il potere l'ho lasciato dalle mani" - F. De André). Nel caso meno cruento, viene ereditato, il che equivale a mantenere la situazione. L'atteggiamento è quello di chi ti dice "Vieni a prendertelo se ci riesci!" - ben sapendo di essere inaccessibile. Ufficialmente la giustificazione prende varie forme, tipo "selezione del migliore", "stimolo a dare di più", "l'aereo decolla solo con vento contrario" (vero). Più semplicemente, sono allegre eredità di due tradizioni italiane di lunga data: il fascismo e la mafia. Da una parte, infatti, per la mentalità fascista il potere giustifica sè stesso, nel senso che il semplice fatto di avere del potere fa "aver ragione" a chi ce l'ha (si pensi alle varie gag, o a Fantozzi, in cui il tronfio commendatore di turno viene ammansito dandogli ragione su qualunque cosa). Più uno è potente, più "ha sempre ragione" per definizione, in maniera intrinseca, e quindi ha perfettamente tutti i diritti di fermare con ogni mezzo chi tentasse di scalzarlo; e poi, quando qualcuno ci fosse riuscito, avrà gli stessi diritti e la stessa ferocia di quello che l'ha preceduto - logico, dopo tutta la fatica che gli è costato arrivare fin lì. Insomma: chi vince prende tutto e spella vivo chi ha perso - non ha letteralmente il diritto di esistere. Ricordo ancora un babbeo che conobbi all'università: "...perché i padroni hanno sempre ragione, altrimenti non sarebbero i padroni: bisogna sempre fare come dicono loro, perché capiscono cose che noi non sappiamo. Mio padre, ad esempio, era un crumiro e fiero di esserlo; gli hanno bruciato l'auto 2 volte". Stavo per linciarlo. Comunque questa mentalità rende estremamente difficile il ricambio generazionale, l'arrivo di idee fresche, di gente dinamica; si tende alla stasi, alla fissità, con una classe dirigente di età avanzata che comanda una società immobile. Questa mentalità ha qualcosa in comune anche col sistema mafioso: dopotutto, l'unico modo per prendere il posto di un boss è ucciderlo o farlo arrestare. Il boss lo sa e sta molto attento a non fornire occasioni. In generale, questo modo di concepire i rapporti è tipico di società fortemente gerarchizzate, tradizionaliste e reazionarie, poco propense ad evolversi e organizzate per la stabilità in tempi storici di scarsi cambiamenti. L'emblema tipico che mi viene in mente per questo tipo di figure è la classica miniatura di qualche codice medioevale che ritrae il professore su uno scranno altissimo, simile a un trono, che dispensa il sapere agli studenti-sudditi; il flusso è a senso unico, da lui a loro.

Ma i nostri non sono tempi immobili. Le cose cambiano con un ritmo intenso: cambiano le regole del gioco, i rapporti di forza, le priorità, i modi di entrare in contatto con gli altri, la società stessa. Oggi in Italia sembra esistere un rapporto inversamente proporzionale fra potere e adeguatezza allo stesso: chi ha più potere sono anche le persone meno aggiornate sulla modernità, mentre quelli che hanno le maggiori competenze sono tenuti lontano dalle stanze dove si decide.

Un fattore che credo decisivo, e che mi sembra pochi hanno notato, è che questa classe politica, dal punto di vista anagrafico (la stessa generazione di mio padre, 1934) è nata sotto il fascismo, e anche se erano magari troppo piccoli per assorbirlo direttamente, lo hanno fatto tramite i loro genitori e insegnanti, tutti nell'età della ragione all'epoca. Anche nel dopoguerra, un docente universitario che avesse avuto 50 anni nel 1950, si è trovato immerso nel fascismo durante i suoi anni della formazione e dell'adolescenza, il periodo in cui si è più permeabili. Infatti la società e la scuola italiane degli anni 50 erano estremamente autoritarie, conformiste e gerarchiche. I risultati di questo tipo di educazione li vediamo oggi nella nostra classe dirigente (non solo politica): menti rigide, incapacità non già di prendere decisioni appropriate ma anche solo di raccapezzarsi, in sostanza vivono nel passato e ragionano secondo schemi non più funzionati oggi.

È come gli artigiani di una volta: il vecchio conosceva bene il suo mestiere, i trucchi e le furbizie, ma ne era gelosissimo e l'apprendista doveva "rubarlo", mentre il maestro cercava di ostacolarlo. Oggi ho saputo di operai esperti che si comportano allo stesso modo con i nuovi, e così quando i giovani magari mettevano le mani nei macchinari per cambiare un pezzo (il trucco c'era, ma restava segreto), qualcuno ci lasciava le dita. Oggi la conoscenza funziona solo se è condivisa, solo nei gruppi di lavoro più aperti possibile. Essere gelosi di ciò che si sa/si ha (in sintesi, del proprio potere) equivale a scavarsi la fossa.

Che fare?... Per quanto inetti (è forse la parola più calzante) o criminali, i nostri dirigenti hanno il potere e lo tengono stretto, come l'artigiano anziano di una volta. È vero che per decollare è necessario (o almeno aiuta) un vento contrario, ma qui abbiamo a che fare con la Bora. Penso che l'unica cosa che si possa realmente fare sia lasciare agire il tempo: da una parte abbiamo dei vecchi sempre più decrepiti, dall'altra abbiamo tutto il nuovo. Il risultato potrà essere tardivo ma è inevitabile: come nel detto cinese, aspetteremo il loro cadavere seduti all'ansa del fiume. Semmai, il vero nodo della questione non è se, o quando, ce ne libereremo, piuttosto la domanda che mi preoccupa è: quando finalmente faremo questo salto in avanti, quanto sarà il nostro svantaggio rispetto alle nazioni che saranno già partite 10, 20, 30 anni prima? E in un mondo così veloce, anche ritardi minimi diventano incolmabili. Pensate alla formula 1, quando due auto sono a 5 centesimi una dall'altra a 250 Km/h, vuol dire che stanno a 70 metri una dall'altra. Mi viene in mente il commento di un giornalista del Time Magazine, ex inviato speciale in Italia, che di recente l'ha definita "Il paese più avanzato del terzo mondo".