martedì 23 ottobre 2007

Non dobbiamo abituarci

Oltre al link del titolo, Vedi anche:
http://www.movisol.org/ulse233.htm

La pagina a cui punta il link del titolo è un filmato un po' inquietante. Si tratta probabilmente di un filmato di repertorio degli anni 50/60 di un esperimento in un poligono militare. Un cannone d'artiglieria viene caricato con una piccola bomba atomica che viene sparata a qualche km di distanza, e fatta detonare. Nonostante sia un ordigno a bassa potenza (i testimoni non sono poi così distanti dall'epicentro, guardate verso la fine quando la telecamera va dall'esplosione agli altri cameraman) non c'è dubbio che il botto è notevole: la vernice sull'auto e sul bus (non certo vicini) prende fuoco per il calore, la tenda s'incendia e i maialini sui supporti vanno arrosto, e poi l'onda d'urto ribalta bus e auto, fa volar via la tenda e fa oscillare il boschetto di pioppi. Questo ad alcuni km di distanza e con un aggeggio non più grande di un'anguria. Ricordi della guerra fredda?...

Non proprio, o almeno non solo. Tutti sono a conoscenza della questione nucleare dell'Iran e in medioriente in generale. Al di là del dubbio se sia davvero un rischio reale o un'altra invenzione di Bush in cerca di pezze giustificative e di Ahmadinejad che "gonfia" la vicenda per fare il "paladino" dell'islam di fronte ai suoi, ci sono notizie dei progetti di riarmo atomico nella regione (http://www.internazionale.it/firme/articolo.php?id=17338) da parte invece di tutti gli alleati degli USA, in barba ai trattati di non proliferazione (firmati ad es. dall'Iran, improbabile possessore, ma non da Israele, possessore accertato di armi atomiche) e a qualunque buonsenso. Sono venuto a conoscenza anche di progetti di abbassare la potenza delle bombe atomiche a 1, 10 100 e 1000 kilotoni, e investire nei progetti di "bunker-buster" (missili capaci di perforare il terreno e il cemento armato per diversi metri prima di detonare) atomici, in modo che il danno all'esterno sia minore e tutta la potenza si scarichi sul vero obiettivo. Ma questi sono solo auto-rassicurazioni da dare in pasto al pubblico perché deglutisca la pillola facendo meno storie. Una bomba da 1 kilotone è equivalente a 1000 tonnellate di tritolo, non contiamoci balle. Il vero rischio è che queste mini-bombe, con quest'immagine di ordigni da poco, "tascabili", passino dal ruolo di deterrenti (come è stato finora) a quello di armi ordinarie da usare alla bisogna con sempre meno scrupoli al diminuire della potenza. Una volta "sdoganate" sul campo di battaglia, si darebbe la stura al loro impiego in tutto il mondo, non più solo alla minaccia di impiegarle. L'unica speranza sarebbe che il paese che la userà per primo, per quanto piccola, si guadagnerà una tale ondata di disapprovazione da parte di tutto il mondo, che pur vincendo sul campo perderebbe la faccia.

venerdì 19 ottobre 2007

"Canto del servo pastore" di Fabrizio De André: un'analisi critica


Dove fiorisce il rosmarino
c'è una fontana scura
dove cammina il mio destino
c'è un filo di paura
qual'è la direzione
nessuno me lo imparò
qual'è il mio vero nome
ancora non lo so.

Quando la luna perde la lana
e il passero la strada
quando ogni angelo è alla catena
ed ogni cane abbaia
prendi la tua tristezza in mano
e soffiala sul fiume
vesti di foglie il tuo dolore
e coprilo di piume.

Sopra ogni cisto da qui al mare
c'è un po' dei miei capelli
sopra ogni sugara il disegno
di tutti i miei coltelli
l'amore delle case
l'amore biancovestito
io non l'ho mai saputo
e non l'ho mai tradito.

Mio padre un falco mia madre un pagliaio
stanno sulla collina
i loro occhi senza fondo
seguono la mia luna
notte notte notte sola
sola come il mio fuoco
piega la testa sul mio cuore
e spegnilo poco a poco.

Il brano fin dal titolo, e poi anche nel testo per elementi di somiglianza che verranno approfonditi, richiama abbastanza palesemente il "Canto di un pastore errante dell'Asia" di Giacomo Leopardi. Si compone di quattro strofe, ognuna a sua volta bipartita in due gruppi di quattro versi ciascuna, e in cui tale divisione è sottolineata musicalmente da un cambio di tonalità che cade esattamente a metà strofa, tra il quarto e il quinto verso (di ciascuna). Mentre i primi quattro versi fanno da premessa, gli altri quattro assumono toni elegiaci per così dire, a causa della loro maggiore carica emotiva, e sono i principali portatori di significato all'interno della strofa.

Di queste quattro strofe, si può osservare anzitutto come la prima, la terza e la quarta siano essenzialmente dichiarative, in sostanza descrittive; la seconda invece in questo si dimostra differente, in quanto contiene un insegnamento, un suggerimento di vita; è anche l'unica in cui si rivolge direttamente all'ascoltatore - "prendi la tua tristezza..." con un effetto simile a un attore che guardi nella macchina da presa senza che sia in corso una ripresa in soggettiva. Considerata questa sua caratteristica, è stridente l'anomalia di questa strofa rispetto al topos degli interventi - diciamo così - "edificanti" espliciti che un autore può inserire nella sua opera - anche se nella sua forma più esplicita appartiene alle usanze del passato (Manzoni ad esempio), che in genere comparivano più facilmente come chiusura della composizione, quasi a sfruttare come prova e premessa tutto ciò che le ha precedute nel testo, e a suggellare il tutto con una considerazione che al tempo stesso riassume e dà senso al tutto. Qui invece la strofa-chiave, l'unica diversa e forse la più bella, compare per seconda. Perché non è stata messa per ultima? Ritengo che l'ipotesi più probabile sia che De André volesse esplicitamente rifuggire dall'apparire come un "maestro" saccente, e quindi ha "nascosto" il messaggio all'interno del pezzo, quasi a metterlo fra parentesi, con modestia, ma con un effetto forse anche più dirompente in chi non è distratto; tanto più che De André raramente nel corpus dei suoi lavori si rivolge direttamente all'ascoltatore con la seconda persona (sarebbe necessaria un'indagine specifica nell'opera omnia per poterlo quantificare con certezza, ma a mente ricordo solo l'ultima strofa de "La città vecchia" - e anche in quel caso è la più "intensa" e quella che contiene il messaggio politico principale, ma compare "classicamente" alla fine). Ha anche la particolarità di contenere una sola rima, "fiume/piume": evidentemente l'autore era più interessato al messaggio che all'estetica formale.
Il mimetismo "a scopi di modestia", come l'ho definito prima, è aiutato, per così' dire, dalla brevità della pausa fra una strofa e l'altra, e dal netto cambio di argomento nell'attacco della terza strofa. Questo costringe l'ascoltatore a rivolgere subito l'attenzione a nuovi elementi, lasciando cadere una frase su cui probabilmente si sarebbe soffermato (altro motivo per cui usualmente si mettono in fondo). Altro topos legato a questo accorgimento mimetico, è quello legato alla conoscenza che nella sua forma più approfondita è nascosta, di tipo "massonico" e iniziatico, per cui il maestro la trasmette in forma implicita, nascosta fra le pieghe del discorso principale; sta al discepolo più perspicace (è quindi una strategia che seleziona le menti più acute) cogliere il vero messaggio, che è quello nascosto.

Restando all'interno della stessa seconda strofa, ma parlando del merito del messaggio, le prime quattro strofe - come già accennato - sono la premessa (infatti, anche se la seconda è diversa dalle altre tre per i motivi detti, conserva la medesima struttura globale): quando c'è una situazione oscura, confusa e che disorienta (è nelle notti di foschia che si può vedere un alone intorno alla luna), e come un piccolo passero ci si sente minuscoli rispetto alla lunghezza della strada da fare e che si è perduta, quando i nostri sogni (l'angelo) sono bloccati a terra - in modo quasi paradossale come immagine, direi - dalla dura immanenza della realtà concreta, che lascia ben poco margine di libertà, quando siamo oggetto di aggressività gratuita da parte di un potere (il cane - da guardia?), allora l'ascoltatore è invitato a considerare coscientemente la propria tristezza ("prendi... in mano"), a non far finta che non ci sia, ma a "guardarla" e poi liberarsene soffiandola nel "fiume" (gesto delicato quindi), come a disperderla e diluirla nella vastità del mondo, in quel fiume che sfocerà nel mare di una grandezza indefinita. Nel gesto del soffiare, invece, è evidente la non-violenza dell'atto liberatorio: un gesto semplice e delicato, più adatto per qualcosa di caro e prezioso che non per la tristezza, che è qualcosa di cui ci si vuole liberare; quasi come se questa fosse un dono che si fa al mondo. Ma forse è proprio questo l'accostamento che vuole dare: anche la tua tristezza ti deve essere cara e preziosa: solo così potrai liberartene, solo se la ringrazierai. Diverso il trattamento riservato al dolore: la pratica di spalmare qualcuno di melassa o altra sostanza collosa per poi farlo rotolare nelle foglie e nelle piume era, se ben ricordo, una comune forma di gogna pubblica, anche se non ricordo più per quale colpa (sarebbe interessante scoprirlo); il dolore quindi va messo alla gogna, fatto oggetto di auto-ironia (ma solo dal diretto interessato). Ma qual'è l'essenza della gogna? Sostanzialmente, direi, esposizione pubblica e dissociazione tramite lo scherno. Dunque qui la cosa è più difficile: deridi il tuo dolore pubblicamente, non lasciare che sia lui a condurre. Tuttavia anche in questo caso la frase contiene una sfumatura quasi "affettuosa", simboleggiata da quel gesto del "vestire" e del "coprire". Anche in questo caso quindi è ben lontana l'idea di atteggiamenti violenti o aggressivi. Si invita a "vestire" un dolore - che si presume "nudo" - perché senta meno freddo, usando l'ironia, ma continuando a nutrire una sorta di senso protettivo.

Spostando l'attenzione sulle altre tre strofe, in linea generale si nota l'ambientazione all'aria aperta, parallela a quella del "Canto di un pastore errante" di Leopardi, con la citazione di elementi prevalentemente naturali del paesaggio. La differenza sta proprio nel tipo di paesaggio, che se in Leopardi erano le steppe e le pianure circondate da monti dell'Asia centrale, qui è spiccatamente un'ambientazione mediterranea - il rosmarino, il mare - che richiama direttamente il paesaggio ligure familiare all'autore. Dalla parte delle somiglianze con Leopardi, invece, si possono indicare l'innocente ignoranza del protagonista nella prima strofa, simile a quella del pastore di Leopardi, sottolineata dall'espressione "naif" dello scambio imparare/insegnare tipico delle persone poco istruite; e soprattutto la presenza della luna, che ha un ruolo centrale in Leopardi e che qui compare nell'ultima strofa; altro elemento comune fra la composizione leopardiana e questa, è la condizione di solitudine del protagonista, che però – a differenza del 'canto notturno' – non è motivo per domande inquiete rivolte alla luna, ma accompagna un atteggiamento quasi rassegnato, privo di tensioni verso l'alto o di ambizioni di sorta; questo in definitiva è coerente con la poetica di De André sulla condizione degli ultimi, e più volte ha manifestato ammirazione per chi accettasse il proprio umile stato senza volerlo cambiare (ma con un significato diverso da quello, ad esempio, di un Verga: qui è un ammirare l'umiltà, là è più un deprecare l'ambizione).

Entrando nella disamina più dettagliata e partendo dall'inizio, nella prima strofa si nota subito un parallelo, sottolineato dalla rima, fra il rosmarino e il proprio destino, e poi fra la fontana scura e la propria paura. Il rosmarino riveste qui un ruolo positivo (fiorisce) contrapposto alla scurezza della fontana, che al tempo stesso ne è il sostentamento. Si capisce che il rosmarino può fiorire solo in prossimità della fontana, e probabilmente l'ambiente esterno è arido e ostile; d'altra parte questo tipo di pianta cresce tipicamente in punti improbabili, e riesce a sfidare condizioni di vita stentate. Ne risulta quindi l'immagine di una vita – quella del protagonista – dura e stentata, che sopravvive solo grazie a un elemento allo stesso vitale e inquietante – la fontana scura. La paura è rivolta al futuro – forse il timore che la fontana si secchi? Il “filo” di paura sembra alludere al filo d'acqua che tiene in vita la pianta. Parlare di futuro e accennare alla direzione da prendere (e qui si esce dalla metafora del rosmarino) è un tutt'uno; e coerentemente anche qui c'è la stessa incertezza, il non (voler) sapere cosa sia giusto e cosa sbagliato (altro tema tipico in De André) sottolineando la propria solitudine anche nel passato, il proprio aver dovuto fare ricorso solo alle proprie forze; addirittura il protagonista afferma di non sapere quale sia il proprio vero nome, con un accenno a quella perdita di identità tipica degli “ultimi” di De André. In definitiva, la prima strofa contiene una tensione fra passato-presente (precario) e futuro (ignoto), a cui si allude quando si parla di nome (che viene dal passato) e di non saperlo ancora (con accenno a futuri sviluppi).

Saltando la seconda strofa, che è stata già esaminata, passo alla disamina della terza: il “cisto” risulta essere (fonte: http://www.wikipedia.org ) un piccolo arbusto dai fiori bianchi, tipico della macchia mediterranea, così come lo è la pianta di sughero – il che confermerebbe la natura del paesaggio ipotizzato per il brano – e tipico dei suoli degradati, il che va a conferma dell'ipotesi sull'ambiente stentato a cui si accennava a proposito della prima strofa. In ogni caso, si nota che per entrambi questi elementi l'autore vi lega qualcosa di suo: i capelli o il disegno dei suoi “coltelli”. Di più: su ogni cisto e su ogni sugara è presente una traccia del protagonista. Questa regolarità è simile a quella presente in “Le acciughe fanno il pallone”:

ogni tre ami
c'è una stella marina
amo per amo
c'è una stella che trema

ogni tre lacrime
batte la campana

[...]

ogni tre ami
c'è una stella marina

ogni tre stelle
c'è un aereo che vola
ogni tre notti
un sogno che mi consola

[...]

ogni tre ami
c'è una stella marina
ogni tre stelle
c'è un aereo che vola

ogni balcone
una bocca che m'innamora



in cui si vuole evidenziare la monotonia della vita di stenti di un pescatore, la regolarità in cui il tempo si perde e le giornate diventano identiche, perdendo il loro stesso significato, e la vita si srotola inesorabilmente senza nessuna progressione, nessun telos cui tendere, fino alla morte. Qui invece la regolarità si sposta dall'ambito del tempo a quello dello spazio (“sopra ogni cisto da qui al mare”), restando nell'ambito semantico “spaziale”, richiamato spesso: il non sapere la direzione nella prima strofa, il passero che perde la strada nella seconda strofa, la collina dell'ultima strofa. Qui è il paesaggio a non avere una direzione preferenziale, a essere indistinto agli occhi del protagonista. Come già accennato, ci sono tracce del protagonista sparse per il paesaggio, i suoi capelli e i disegni dei suoi “coltelli”. I capelli in genere sono simbolo di forza (si pensi al mito di Sansone), e perderli coincide in genere con un trauma, un evento negativo (così come lo sbiancare dei capelli); sullo stesso tono si può interpretare la rappresentazione dei coltelli, che a mio avviso andrebbero visti come, per così dire, i coltelli “subiti” più che quelli “usati”, tutti gli eventi traumatici subiti dal protagonista e disegnati sulla corteccia per sfogo, al posto e forse in contrapposizione ai tipici "cuori" che vi si trovano disegnati usualmente. Tanto più che si tratta di disegni di coltelli, non di oggetti effettivi - una allusione alla "pipa" di Magritte?... Comunque, Questa interpretazione confermerebbe il valore negativo di cui è carico il paesaggio agli occhi del protagonista. La seconda parte della strofa è uno slancio di rimpianto del parlante per un tipo di vita che non ha mai conosciuto; anche qui come nella prima strofa si trova una sgrammaticatura ("saputo" per "conosciuto") che ne sottolinea l'ingenua ignoranza. Quello che non ha mai conosciuto è l'amore nella sua forma più "alta", quello che crea famiglie (delle case) e suggellato dal matrimonio (biancovestito, con evidente allusione all'abito da sposa, resa elegantemente con un calco dagli epiteti omerici); ma non ci dice soltanto di non aver mai provato qual tipo di amore, perché aggiunge che non l'ha mai tradito. Qui non bisogna lasciarsi ingannare dall'apparente incongruenza (come si può tradire una persona che non si ha?) perché quello che si intende è la fedeltà all'idea, a quella concezione dell'amore. Da qui si possono dedurre tre cose: che quel tipo di amore è visto come positivo, anzi forse l'unico che abbia un valore; che per coerenza (una forma di fedeltà dopotutto) ha rifiutato altri tipi di amore, più facili ma più "bassi"; e probabilmente la tristezza e il dolore della strofa precedente sono legati allo stesso motivo.

Diversa l'ultima strofa: se le prime tre sono in qualche modo rivolte al passato, a raccontare quali siano le premesse del suo presente, le coordinate in cui muoversi, o una sorta di flashback; l'ultima è esattamente il momento presente del parlante - proprio come nel 'Canto' di Leopardi, che assume il suo significato da ciò che lo precede, non da sé stesso. Un po' come in un film, se nell'ultima inquadratura ci sono due persone che guardano insieme l'orizzonte, per chi entrasse in sala in quel momento non avrebbe nessun significato in sé, mentre per chi ha visto il film è carica di significati emotivi. è presente un accenno ai genitori ormai deceduti, che stanno sulla collina, al tempo stesso la stessa collina di “Non al denaro...” e elemento “altro” del paesaggio, inquadrato per così dire da lontano, non contaminato dal carico negativo del resto. I genitori anzi si sono trasformati in elementi della scena (il falco, il pagliaio) e vegliano sul protagonista (seguono la mia luna) e citando la luna il brano ritorna, in chiusura, ad affiancarsi al “Canto di un pastore errante” (che è un monologo rivolto alla luna) ma il protagonista si rivolge alla notte anziché all'astro, esprimendo somiglianza fra sé e la notte nella solitudine, e il bisogno di un gesto di calore (“piega la testa sul mio cuore”) e al tempo stesso di oblio (“spegnilo poco a poco”).

In definitiva quello che emerge è la disperata staticità della condizione del protagonista: non c'è evoluzione né tanto meno lieto fine; la sua vita è e rimane sempre la stessa, e l'unico conforto può essere solo il ricordo dei genitori o l'oblio di sé grazie alla fusione con la natura, o un gesto di calore, che però non viene da una persona, ma è attribuito (meglio: richiesto) alla natura. E a tal proposito, anche questa natura, pur essendo a prima vista la generosa macchia mediterranea, si rivela un po' fredda e distante, quasi come in Leopardi.


sabato 13 ottobre 2007

Il bandolo della madrassa

Per una difesa della complessità

Inizierò con un esempio.

Quando si parla di terrorismo internazionale, gli occhi di tutti sono rivolti all'Afghanistan, dove si sta concentrando l'attacco delle forze americane e dei loro alleati; ma forse il centro di tutto è altrove, ed entrambe le parti in campo preferiscono stare lontane dai riflettori, mentre i veri giochi si svolgono, anche se ognuna per motivi diversi.

In un articolo del Time di qualche settimana fa, si soprannominava “Talibanistan” la zona al confine fra il Pakistan e l'Afghanistan, da Peshawar giù giù fino a Quetta. Lì ci sarebbe lo zoccolo duro dei Talebani, che si sono rifugiati oltreconfine, in un territorio che gli Americani hanno più difficoltà ad attaccare perché di uno stato ufficialmente loro alleato. In questa zona i Talebani avrebbero ampiamente mano libera, anzi starebbero rafforzando i loro legami con le scuole coraniche pakistane, che a loro volta si stanno avvicinando ai Talebani: vedi la crisi della Moschea Rossa a Islamabad del luglio 2007. I Talebani cercano alleati contro la NATO, mentre i Pakistani sperano in un aiuto per far cadere Musharraf il 'traditore' che si è alleato con gli Americani e, peggio ancora, ha mandato l'esercito nella Moschea Rossa. La contesa verterebbe solo su quale delle due cose sia prioritaria.

Sembra che la scelta sia di dar man forte in Pakistan piuttosto che muoversi verso ovest. Musharraf si trova in un momento molto delicato: dopo aver tentato invano di ridisegnare l'organico della Corte Suprema, ora si trova a dover attendere un suo verdetto a proposito della possibilità (non potrebbe, secondo la costituzione pakistana – fino ad ora la Corte Suprema glielo ha concesso come eccezione) di restare al potere pur mantenendo una carica militare – e dopo quello che è successo è facile aspettarsi un responso negativo, il cui impatto sarebbe ancor più forte sapendo che la Costituzione prevede due anni di “riposo” prima che un ex-militare possa ricoprire ruoli pubblici. Naturalmente, questo Musharraf non se lo può permettere, né ovviamente Bush.

Infatti è probabile che ci sia proprio l'amministrazione americana dietro il “salvagente” che si sta tentando di lanciare al generale, nella forma di un tentativo di compromesso con l'ex premier Benazir Bhutto, donna, moderata e filoccidentale, nonché avversaria storica del generale. L'altra opzione, quella di Nawaz Sharif, è stata cestinata nel momento in cui è stato ri-espulso in Egitto da Musharraf dopo che aveva finto un permesso di ritorno; le credenziali di Sharif sono ambivalenti: era in buoni rapporti con l'amministrazione Clinton e ha consentito di utilizzare basi nazionali per gli attacchi ai Talebani, ma è anche vero che è stato accusato di malgoverno e corruzione e ha fatto un test nucleare che ha attirato sul paese le sanzioni internazionali.

Con la Bhutto, invece, l'intenzione è quella di rafforzare le fazioni centriste allo scopo di emarginare gli estremisti, ma anche ammettendo che Musharraf possa accondiscendere all'accordo – a lui la presidenza in abiti civili, alla Bhutto la guida del governo e la decadenza delle accuse di corruzione – resta il fatto che esiste il rischio che i sostenitori di entrambi vedano la cosa di pessimo occhio e si sentano traditi, spostandosi quindi agli estremi, ovvero l'opposto di quanto si spera. Un altro punto di difficoltà è come la Bhutto gestirà le Madrase – che ha detto di voler riformare – e l'esercito: nessuna delle due istituzioni ama ricevere ordini da una donna, ed entrambe potrebbero quindi decidere di muoversi autonomamente. Non per nulla Musharraf continua a tenersi nel taschino l'ultima opzione, la legge marziale, che di fronte a tutte queste incognite e ostacoli continua a tenere in considerazione come un jolly da giocare, probabilmente per lui la prima opzione, ma vista come extrema ratio dagli americani perché darebbe ancora più forza agli integralisti e probabilmente darebbe la stura ad una rivolta su larga scala che li porterebbe al potere.

Già, le Madrase e l'esercito. Nonostante l'attacco alla Moschea Rossa, in realtà fra le due istituzioni più importanti (di fatto) nel paese ci sono sempre stati dei legami, così come ora ne esistono fra le Madrase e i Talebani; l'esercito d'altra parte ha sempre annoverato fra i propri vertici uomini vicini all'islamismo radicale, e ora anche fra gli ufficiali serpeggia l'antipatia per Musharraf: l'alleanza con Bush, la Moschea Rossa, le prospettive di un ritorno della Bhutto. Anche i servizi segreti sono dalla stessa parte. È probabile che frange dell'esercito e dei servizi segreti, approfittando della debolezza istituzionale del generale, stiano preparando un colpo di stato per deporre Musharraf e instaurare un califfato islamico con l'aiuto dei Talebani e delle Madrase, per poi – presumibilmente – appoggiare una riscossa dei Talebani stessi in Afghanistan contro la NATO. Se può sembrare improbabile, non va dimenticato che il Pakistan dispone di armi atomiche e che il suo esercito è uno dei meglio armati della regione, rafforzato dalle lunghe dispute di confine con l'India per il Kashmir. È improbabile, del resto, che usino l'arma atomica sul suolo pakistano, perché renderebbero inabitabile il suolo che vogliono liberare; potrebbero passare sottobanco un ordigno da utilizzare in occidente o in Israele.

Come dovrebbero muoversi i paesi occidentali? Appoggiare una legge marziale imposta da Musharraf? Aprire la strada alla Bhutto? Spingere per nuove elezioni (ma si ripensi al caso-Hamas)? Continuare la campagna in Afghanistan come se niente fosse? Qualunque scelta sembra solo rafforzare gli integralisti, che dal canto loro potrebbero essere a loro volta solo in attesa del momento migliore per agire, forse quando Musharraf sarà più vulnerabile o più avanti, durante le elezioni americane o il passaggio di consegne alla Casa Bianca, il momento più delicato. Come dicevo all'inizio, se i Talebani tengono il tutto sotto segreto per ovvi motivi, anche gli occidentali preferiscono far finta di niente - perché ovviamente sanno già molte cose - di fronte all'opinione pubblica, un po' per non accentuare il fallimento di Bush e della sua politica nella regione, un po' per non indebolire Musharraf, un po' per non dare l'impressione di essere all'angolo.


Tutto questo per dire che è tipico di chi “non sa”, dare ai problemi soluzioni immediate, tranchant ed estremamente semplici, che si tratti di una piccola faccenda pratica o di problemi internazionali. Di più: il bifolco crede anzi di saper già tutto, e di fronte all'atteggiamento dubbioso o riflessivo della persona colta lo interpreta – paradossalmente - come “ignoranza” e sbotta, parlando svelto come uno 'che la sa lunga': “Ma fai così, no? Possibile che non ci arrivi? Sei proprio stupido!”. Inutile precisare che spesso e volentieri le soluzioni di questi geni lasciano il problema lì dov'è e anzi, nella maggior parte dei casi lo peggiorano e lo rendono ancora più insolubile, o risolvibile ad un costo ancor più alto di quanto non fosse prima. Ricordo ancora qualcuno che invocava l'atomica sull'Afghanistan dopo l'11 settembre, senza capire che se comincia a usarla uno la useranno tutti con sempre meno scrupoli, ancor più ora che l'avversario non è un esercito ma una rete sotterranea pronta a tutto e che arriva facilmente in ogni punto del globo. E ricordo anche un muratore con cui lavoravo, che di fronte a un cardine di un cancello staccato dallo stipite, ha detto “lo saldo io, lo saldo” - si è preso una scala, e ha saldato... il cardine. Il cancello non si poteva più aprire. Hanno dovuto tagliare entrambi i cardini col disco abrasivo, far cadere il cancello, rimuoverli, metterne di nuovi e rimettere il cancello a posto.

La realtà è complessa e, anche se ne siamo tentati, non dobbiamo cadere nel tranello delle soluzioni più a portata di mano. D'altra parte è per questo che non ho messo una idea di soluzione per il caso pakistano: in base alle informazioni di cui dispongo, semplicemente non ne vedo. Forse l'unica soluzione possibile - purtroppo - sarà venire a patti con questa gente, o almeno con le frange meno oltranziste, nella speranza che poi siano loro a convincere i più caldi. E in effetti mi risulta che - fra grandi proteste ufficiali - sia questa la strada che sta tentando Musharraf. Si ringrazia per questa situazione: George W. Bush, Donald Rumsfeld, Dick Cheney, Paul Wolfowitz, Lewis Libby, Karl Rove, John Bolton e tutti gli altri Dottor Stranamore e compagni di merende.

Il link del titolo, invece, sono informazioni di cui veramente pochi dispongono. Ogni anno che esce, per me è l'articolo dell'anno. Non ho ancora finito di leggerlo ma quello del 2005 mi aveva chiarito parecchie cosette... Fondamentale. Non lo troverete nè sui giornali nè in TV.