sabato 4 gennaio 2014

La seduzione come paradigma contemporaneo



La seduzione è il paradigma ereditato dall'epoca neoliberista, e che probabilmente persisterà ancora per qualche tempo dopo la sua fine.

"Sedurre" dal latino se ducere, condurre a sé, è l'esatto opposto dell'amare, che è andare verso l'altro - è attrarre l'altro trasformandosi in quello che egli si aspetta, invece di andare verso l'altro con ciò che si è, con la propria identità - ma proprio per questo, essendo uguale e contrario, facilmente le due cose vengono confuse. Il seduttore necessita di un pubblico più che di un interlocutore, anzi genera il suo pubblico con la sua stessa presenza e il suo stesso agire. "A me gli occhi!" sembra dire. Dà al suo pubblico quello che si aspetta allo scopo di ottenere quello che vuole. La seduzione è intrinsecamente menzogna, illusione, inganno. E' la prevalenza dell'apparenza sulla sostanza, del soddisfacimento immediato sul beneficio a lungo termine, del facile capriccio sulla fatica della creazione. Seduttori non ce ne sono solo nelle relazioni personali, sono anche tutti i pubblicitari, gli uomini-marketing, i "piacioni" di ogni genere, i politici, i personaggi dello spettacolo.

 Seduttore è (cito un episodio reale) il padre separato, che per invogliare il figlio ad abitare con sé gli promette di farlo smettere di studiare e di introdurlo al suo lavoro di piastrellista, a scarso contenuto di conoscenza ma che gli permetterà di soddisfare ogni capriccio consumistico, questo mentre la madre lo sta mandando a studiare alle superiori e con pochi soldi nelle tasche; seduttore è il politico che ripete davanti ai microfoni discorsi da bar, affermando cose in contraddizione fra di loro allo scopo di farsi percepire come "uno di noi" invece di trattare gli elettori da adulti dicendo: "signori, la situazione è questa, ha questi vincoli e queste opportunità, e in base ai miei valori e alle mie competenze, ritengo che la direzione da prendere sia questa e vi chiedo il vostro appoggio". No, le parole del seduttore non sono mai esplicite, mai oneste; sono una rete di sottintesi, di non detti, di allusioni, di furbizie, di strizzamenti d'occhio, è il trionfo del vago e dell'informe, delle promesse senza parole.

Il seduttore applica la modalità consumistica ai rapporti fra le persone: le attira con le sue esche, le "consuma" come prodotti e "si fa consumare" in quanto prodotto egli stesso, che ha in precedenza adeguatamente "venduto" con abilità. Il linguaggio, la cornice che dà forma a tutto il rapporto è di stampo economico. E' totalmente una transazione, spesso nello specifico una truffa. Quando poi la bottiglia è vuota, se ne procura un'altra buttandosi di nuovo "sul mercato" con una nuova "campagna di comunicazione". E' una mina vagante sociale.

Nei rapporti affettivi questo ciclo, ripetuto infinite volte e da innumerevoli individui, ha creato nel tempo un'atmosfera di cinismo e diffidenza fra le persone; ha lasciato una scia di risentimenti e conti in sospeso che pervade tutta la società, che le controparti "perdenti" hanno digerito soltanto infliggendo a qualcun altro lo stesso trattamento, e così perpetuando lo stesso danno alla fiducia fra le persone, alla possibilità di incontrarsi realmente.

Uso definire male ciò che costringe chi lo subisce a ripeterlo per liberarsene, come l'esempio della fila di poltrone in aereo in cui il primo sdraia il sedile e quindi a catena, impone a quelli dietro di fare altrettanto, fino a quello in ultima fila che non ha spazio e rimane incastrato. O come un datore di lavoro avido, che premendo per abbassare gli stipendi obbliga i dipendenti a diventare altrettanto avidi nel lottare per conservarli. Il bene invece è ogni volta uno sforzo, una sfida che si può anche perdere perché implica l'altro e vive del suo contributo.

Il seduttore è uno schermo, sul quale il suo pubblico proietta i suoi desideri e le sue aspettative; in questo senso non si riesce nemmeno ad accusarlo di non mantenere le promesse, perché formalmente non ne fa. Non si sbilancia, lascia che lo facciano gli altri. Non è l'avventore del casinò, è il croupier.

Ma la cosa peggiore è che la modalità del seduttore induce le sue prede a cercarlo, a desiderarlo, a legarsi a lui condannandosi alla delusione. Così facendo obbliga anche coloro che seduttori non sono a seguire lo stesso paradigma, ad adottare il suo stesso linguaggio, a seguirlo sul suo stesso terreno, un po' come quando le tv private hanno riempito i loro spettacoli di ballerine scosciate, e di conseguenza hanno obbligato anche la tv pubblica a riempirsi di altrettante ballerine scosciate. Purtroppo nel gioco dei singoli, chi seduttore non è, e si lancia in un tale tentativo, fa la fine di Napoleone in Russia. La modalità allusiva, vaga, informe di relazionarsi del seduttore, di cui ho già parlato, la sua "promessa senza parole", inoltre, rende perdente chi invece si approccia all'altro in maniera onesta, esplicita, "con parole". Il pubblico del seduttore, trovandosi di fronte a qualcosa di fumoso e vago, vi proietta spontaneamente ciò che più gli piace, e glielo attribuisce, di conseguenza è ovvio che lo gradisca sempre, illudendosi che egli abbia indovinato perfettamente quello che alla sua preda piace; l'approccio esplicito, fatto di parole, ha meno chance di essere accettato, perché quelle parole verranno dal fondo reale di un'altra persona, sono parole aliene, estranee, realmente "altre" e quindi non è detto che piacciano, anzi è molto probabile che all'inizio non piacciano. Il fatto stesso di presentarsi, di definirsi, è un rasoio di Occam.

Quali soluzioni possiamo escogitare contro i seduttori? A mio avviso, solo attendere. Il tempo lavora a svantaggio dei seduttori. Col tempo la realtà affiora dalle nebbie del sogno e si impone agli occhi del sedotto; per questo, infatti, l'azione del seduttore è sempre veloce, rapida, passeggera, proprio allo scopo di non trovarsi faccia a faccia con la sua preda quando l'illusione cade, ma essere già altrove, con una nuova preda.

Un esempio: il ragazzo che smise di studiare per andare a lavorare col padre nell'edilizia, ora per via della crisi è rimasto senza lavoro e al tempo stesso senza un titolo di studio che gli permetta di riciclarsi. Sedotto e scornato, e quel che è peggio sedotto da suo padre. Mi domando se ancora ambisce a comprarsi una BMW serie 7 prima dei 30 anni o se sta pensando di riprendere gli studi; ma forse la sua auto costosa l'ha già acquistata e ora la sta (non) pagando a rate: un'altra seduzione, un'altra trappola nella quale è caduto...

martedì 4 dicembre 2012

Heavy clouds, no rain

I "mercati" danno segni positivi ma non si vedono ripercussioni sul mondo del lavoro. A mio avviso il motivo sta nel fatto che i flussi di capitali non raggiungono il "terreno" ma sono intercettati da altri giochi finanziari, fondi d'investimento, paracadute finanziari dei più ricchi, ecc. Insomma il denaro che eventualmente si mette in moto rimane "virtuale", "azionario", in "forma gassosa" senza "condensarsi" nello stato "liquido" fruibile dai cittadini. Quando un ricco imprenditore riesce a incassare soldi da pacchetti azionari, ad esempio, non li investe nella sua azienda ma li gira immediatamente verso altri pacchetti azionari, fondi di speculazione, ecc - gli stessi strumenti che hanno tenuto mezza Europa nel mirino sotto la minaccia dello spread. Il "vangelo" mediatico che recita "accontentiamo i mercati e i mercati accontenteranno noi" cozza contro l'egoismo intrinseco dei mercati: accontenta i mercati e loro vorranno ancora di più.

venerdì 28 ottobre 2011

Gilad Shalit

L'ipocrisia israeliana sul caso Shalit è molto più profonda di quanto scrive Gideon Levy, per quanta stima possa avere per lui. Dice bene quando afferma che ci sono molti altri soldati nelle condizioni di Gilad Shalit, ma è proprio quando si domanda perché Shalit sì e gli altri no che la mia interpretazione cambia. Il governo israeliano ha puntato forte su Shalit (il temine "puntare" è intenzionale, come gergo delle scommesse) non perché l'avesse a cuore, ma perché aveva bisogno di un simbolo unificatore da spandere ovunque attraverso i media. Lo si capisce da tre cose: primo, per quanto ne so, Shalit non ha nessuna "caratteristica particolare" dal punto di vista delle sue oponioni politiche o della storia personale, anzi l'essere "uno qualunque" lo fa identificare con ogni israeliano; secondo, è uno solo, nel senso che il governo non si è impegnato per la liberazione dei soldati ostaggi di gruppi palestinesi, nel loro insieme, per una campagna autenticamante politica, ma ha usato un uomo singolo come simbolo, quasi un archetipo, come leva per raccogliere consenso; terzo, il governo ha posto una specie di ricatto morale molto sottile alla popolazione: chi non vuole Shalit libero? Chi non supporta i nostri soldati? Chi è amico dei terroristi? - come qui in Italia: chi può dire di non volere la "libertà"? - Quando si pongono queste domande, si obbliga l'interlocutore a dare una sola risposta, che poi viene "afferrata al volo" e trasformata in consenso al proprio operato e al proprio programma politico. Molti venditori conoscono questa tecnica. Questa è la vera mistificazione: fare la voce grossa su un tema (la libertà di Shalit) su cui non credo ci fosse molta divergenza d'opinione in Israele, raccogliendo facili consensi, anziché affronare argomenti controversi e spinosi, osando infrangere schemi consolidati, e rischiando di farsi dei nemici. La vicenda mediatica di Shalit è totalmente costruita, dalla prima all'ultima parola. Invito a rivedere "Sesso e potere" (Wag the dog) con Dustin Hoffmann e Robert De Niro: di "eroi su misura" è pieno il mondo.

domenica 14 agosto 2011

150

So che sarò duro ma voglio evitare le banalità e andare al vero nucleo della questione dell'Italia oggi.

E' innegabile che una grossa parte del problema è questa nostra classe politica , inetta o mafiosa, a seconda della parte che si considera, e il modo di concepire la società che ha questo governo, che riflette il "forzismo" che hanno seminato per 15 anni - a proposito, ci avete fatto caso che la crisi italiana dura da quando c'è il nano? Be' non è un caso.

Ma fermarsi qui è troppo facile, è consolatorio: "in fondo noi siamo bravi, è tutta colpa sua (o loro)". L'altro 50%, purtroppo, è la pigrizia, soprattutto mentale, degli Italiani. Forse perché non lo sono mai stato, solo ora a 37 anni mi rendo conto che la maggior parte della gente pensa solo a tirare a campare, partendo dallo "scaldare" il banco a scuola per aspirare al minimo 6 anziché approfittare dell'occasione per avere la CONOSCENZA che è l'unico vero POTERE, e quella però te la devi prendere tu, non te la possono dare i maestri. Loro possono darti gli "attrezzi" poi sei tu che scavi. E poi c'è il tirare a campare dell'italiano tipo, casa-ufficio-tv-calcio-centro commerciale che non si fa domande, non è incuriosito da niente, che ripete le frasi dette in TV senza sapere quello che dice, che in qualunque cosa "fa come fanno tutti così non rischia di sbagliare", la verità è che conosce troppo poche cose per inventarsi un'altra soluzione, magari migliore. Quello che proprio perché non sa niente crede di saper già tutto quel che serve (mentre più si sa, più crescono le domande rispetto alle risposte), vale a dire essere uno squalo arricchito cafone. Una bella definizione di "cafone": è colui che non si cura degli altri, che tira dritto per i suoi interessi senza badare che esistono anche quelli degli altri. Quello che si vanta di essere furbo, non intelligente, perché per essere intelligente ci vuole sforzo e lui ne vuole fare il meno possibile. L'Italiano medio rintanato nel suo orticello quotidiano, ripetitivo e ristretto, piccolo, gretto, egoista, pecorone e di vista molto corta, con la mente all'ultima notizia ma senza nessuna capacità di ricordare un prima o prevedere un dopo, men che meno di collegare il tutto, ancora una volta perché non ha studiato davvero, non ha mai approfondito qualcosa, non ha mai avuto sete di conoscere meglio un qualunque angolo dello scibile umano. Negli altri paesi non è così, nei paesi che funzionano intendo, ad esempio gli stati dell'Europa del nord. Anche come produzione, l'Italia è rimasta agli occhi degli stranieri un paese di manodopera poco istruita, obbediente alle gerarchie, facilmente pilotabile e adatta quindi per compiti ripetitivi dove la qualità finale conta poco e conta ancora meno che l'operatore ci metta delle sue conoscenze, mentre contano soprattutto le quantità prodotte e il prezzo basso (vi dice qualcosa questa descrizione? A che nazione la possiamo sovrapporre oggi?...) - una società da anni 50, fantozziana. Ma questo sistema oggi non funziona più. Invece oggi i paesi in cui le cose funzionano, hanno lavoratori istruiti, che contribuiscono all'attività con le loro conoscenze, lavorano in ambienti poco gerarchici, producono oggetti di qualità, che valgono di più e quindi costano di più e quindi gli stipendi sono più alti. E guardacaso in genere questo tipo di persone sono anche quelle che hanno politici più efficienti, non pensano solo al loro orticello, si sentono parte di una società, e magari anche di un pianeta.
Chiudo con una domanda: se come diceva Pavese "un Paese vuol dire: non essere soli", voi come vi sentite oggi? Che Paese è questo?

domenica 22 maggio 2011

(forse) il tramonto del jihad

E così anche Bin Laden se n'é andato. Dopo aver sconvolto l'occidente e il mondo islamico negli ultimi dieci anni, la sua morte segna un giro di boa nella geopolitica. Quali conseguenze avrà per entrambe le parti in causa, nel medio-lungo termine? Ovviamente tale tipo di previsioni può essre sempre azzardato, ma ci sono alcuni aspetti, nei vari scenari che compongono gli attori in gioco, su cui vale la pena di azzardare qualche previsione, con una sola, generale premessa: questo evento, almeno nell'immediato, non capovolgerà automaticamente le situazioni, non dobbiamo cadere nella trappola di credere che ucciso Bin Laden tutto tornerà a posto. Per quanto importante, era solo un attore fra molti, e tutto sommato direi che ormai era una figura del passato anche per il mondo musulmano, probabilmente anche scomoda ormai, e in ultima analisi è per questo che è caduto.

  • Afghanistan/ Pakistan: già il fatto di nominarli insieme dovrebbe far capire che le sorti dei due paesi sono legate fare loro, considerando che le basi sia ideologiche che logistiche di molti partigiani afghani contro la coalizione hanno sede nelle zone al confine fra i due paesi, e che la stessa Al Qaeda è stata fondata in Pakistan. Detto questo, è risaputo che i servizi segreti pakistani - l'ISI - hanno avuto sempre un atteggiamento quanto meno ambiguo nei confronti di Al Qaeda e dell'alleato americano, praticando spesso e volentieri il doppio gioco. Il fatto che Bin Laden sia stato trovato a poca distanza da un complesso militare non fa che confermare le peggiori ipotesi: o ne erano a conoscenza, il che significa che una parte sostanziale dei vertici dell'ISI ha protetto e aiutato Bin Laden, nascondendolo agli alleati ufficiali del paese, vale a dire gli americani, o non ne erano a conoscenza, il che significa che hanno fallito su un obiettivo ad alta priorità (naturalmente è molto più probabile la prima ipotesi). Il capo dell'ISI è volato a Washington e probabilmente tornerà presentando le dimissioni. Già da qualche tempo i Taliban hanno iniziato - cautamente - a svincolarsi dall'abbraccio ormai scomodo con Al Qaeda, cercando di trasformarsi in movimento politico, un po' sulla falsariga della trasformazione che sta iniziando nel Paese Basco coi movimenti autonomisti, che si stanno allontanando dal terrorismo dell'ETA per avviare un percorso di lotta politica. Francamente, non so dire quanta buona fede ci si possa aspettare da un tentativo speculare da parte dei Taliban; si può ipotizzare anche che una parte abbia davvero queste intenzioni, ma non so se i dirigenti siano in questo gruppo: forse hanno solo fiutato il giro di vento e si son travestiti da agnelli per poi agire da lupi. In ogni caso, la fine di Bin Laden e la marginalizzazione di Aq Qaeda probabilmente contribuiranno ad accelerare la trasformazione dei Taliban in movimento politico (più o meno) presentabile, il che porterà prima o poi a incontri diplomatici, prima segreti (probabilmente già in corso), più avanti palesi, infine a conferenze di pace con gli americani, che - diciamocela tutta - non vedono l'ora di avere l'occasione per andarsene senza fare la figura di quello che ha perso, e questa è veramente su un piatto d'argento. Del resto, considerando i morti afghani negli attentati, suppongo che neanche la maggioranza della popolazione ami gente che ammazza i connazionali molto più degli invasori (nei due sensi della frase), e questo potrebbe accelerare la loro fine. Con in più il fatto che negli Stati Uniti si avvicinano le elezioni e per Obama, poter magari annunciare la fine della guerra poco prima delle elezioni, sarebbe un grosso colpo che lo rafforzerebbe per la rielezione. L'otto maggio importanti politici afghani hanno già invocato le dimissioni di tutto il governo e successivamente di tutti i vertici militari - a cui l'ISI fa capo, nonché l'abbandono del territorio da parte delle truppe straniere. I negoziati si avvicinano a grandi passi, ciò non significa che saranno semplici, anche perché parteciperanno molti attori - anche e specialmente di altri paesi della zona e non, ognuno con le proprie rimostranze.

  • Palestina e Israele: anche qui l'accoppiata è per gli stessi motivi. Le forze in campo che si sono affacciate di recente sono ovviamente la morte di Bin Laden, l'onda lunga dei movimenti del mondo arabo, e l'apparente (meglio essere attendisti) conciliazione fra Hamas e Al Fatah. Indicativo che in tutto questo movimento Israele sia, tutto sommato, relegato al ruolo di spettatore che ancora non sa bene come entrare in scena. Anche in questo caso è difficile che la situazione si risolva in breve tempo, ma di sicuro questi tre elementi sono abbastanza nuovi, imprevisti e di ampia portata da rimescolare tutte le carte in tavola quel tanto che è sufficiente per rompere la stasi asfissiante che si era instaurata ultimamente, e direi che un po' d'aria nuova ci voleva. Col tempo, poi, per Israele sarà più difficile invocare la scusa del terrorismo per giustificare il proprio comportamento rigido.

  • Nordafrica: come qualcuno ha commentato, è un chiaro segno dei tempi il fatto che - pur in diversi modi e con diversi esiti nei vari paesi del Maghreb e del medio oriente - le rivolte arabe hanno ottenuto in poche settimane ciò che Al Qaeda non era riuscita ad ottenere in dieci anni. Non si sono viste bruciare bandiere americane o di Israele, e i motivi di protesta - lavoro, pressi dei beni di prima necessità, corruzione, assenza di controllo sui leader, situazioni repressive - erano decisamente laici. E' chiaro che l'integralismo islamico attira sempre meno simpatizzanti in quelle regioni. E da qui deriva un altro elemento: ormai un indebolimento delle organizzazioni terroristiche toglie ai regimi di questa regione ogni pretesto per continuare con stati di emergenza trentennali, repressioni draconiane, e così via, in modo simile a come ho detto per Israele.

  • Europa: L'Europa di oggi è palesemente in crisi di identità, e a mio parere lo resterà finché gli unici motivi di unificazione resteranno essenzialmente economici - specialmente adesso che i vari paesi in crisi di debito fanno affidamento sulla massa critica dell'Europa per non affondare. Quanto poi alle soluzioni adottate dalle istituzioni finanziarie europee, se siano davvero in grado, o - peggio - se siano veramente architettate per risolvere i problemi economici, è cosa tutta da vedere.
    Ma stavo parlando di identità. A dire il vero non amo il termine per due motivi: il libro di Amartya Sen e una sinistra assonanza con "identico". Prima di tutto ricordiamo sempre che quelli che si imparentano nello stesso gruppo, col susseguirsi delle generazioni cominciano a diventare tarati, mentre spesso le persone più interessanti e con le idee più innovative provengono da una mescolanza, che sia di culture o di lingue o di pelli.
    L'Europa, ancora oggi, non sa bene chi è. Fino ad ora il clima di terrorismo internazionale degli ultimi dieci anni l'ha dispensata dal farsi domande troppo approfondite su di sé, perché un nemico comune crea unione, ma è di un genere poco duraturo se, mancando di cogliere l'occasione di essere "nella stessa barca", gli stati non avviano cooperazioni che vadano oltre l'aspetto della sicurezza, la moneta o l'impegno militare. A quando l'unificazione del sistema scolastico, sanitario, infrastrutturale, industriale, culturale, e magari addirittura giuridico e fiscale, tanto per fare qualche esempio? Avviare un percorso di avvicinamento comune sarebbe stato una risposta potente all'estremismo. Avrebbe dato l'esempio: è possibile stare insieme anche se si è diversi - io rilancerei: si può stare insieme proprio perché si è diversi.
    Mentre gli ultimi eventi in Pakistan rischiano (col tempo) di mettere l'Europa di fronte a sé stessa, con la possibilità che la risposta che troverà sarà un'identità (qui davvero sinistramente "identica") legata a un certo sciovinismo misto a radici cristiane, i nodi vengono al pettine, gli stati litigano intorno alle percentuali come nelle coppie sull'orlo della separazione e forse un nuovo medio oriente sta cominciando ad arrivare, ancora indistinto, e con esso un nuovo mondo musulmano, una nuova Africa e immancabilmente un nuovo tutto-il-resto. Questo è il momento per domandarsi seriamente se si vuole proseguire con il progetto europeo (per me sì) e a quel punto smetterla di girare a vuoto e farlo davvero. Voglio proprio vedere che posizione prenderebbe il governo europeo sul conflitto d'interessi come quello che c'è in Italia.

  • Stati Uniti: l'euforia di questi giorni per l'uccisione di Osama a mio parere è esagerata, e per due motivi: uno è l'ingannevole convinzione che basti uccidere per risolvere - a volte in questo modo si creano dei martiri o addirittura dei miti, e in ogni caso è un errore pensare che basti sparare per risolvere tutto, come gli americani hanno il vizio di credere; l'altro motivo è che ovviamente il terrorismo internazionale non finisce con Osama, anzi nei prossimi mesi probabilmente assisteremo a colpi di coda di un'organizzazione che si sente messa all'angolo.
    Ma al di là di queste precisazioni, sicuramente la fase dell'eccezionalità - anche giuridica - della "guerra al terrore" iniziata con Bush sta per finire, così come l'alleanza col Pakistan. Già ora ci si comincia a chiedere cosa si sta ancora a fare in Afghanistan, e tutti questi sviluppi tenderanno a smontare le argomentazioni della destra americana, considerando anche che l'america in questo periodo è concentrata soprattutto sul fronte interno, sull'economia, e la classe dirigente stava aspettando l'occasione per svincolarsi dalla guerra, sia per ragioni di budget che politiche. Questo successo - per quanto relativo - potrebbe portare un certo vantaggio ad Obama se, entro le elezioni presidenziali, riuscisse a portare a casa un buon numero di truppe, ma penso che il maggior vantaggio sia dal punto di vista del "framing", secondo il termine coniato da Lakoff: non c'è più una situazione del genere "America contro islam" ma è diventata "America contro un gruppo di estremisti sempre più isolati anche all'interno dei loro paesi". La retorica dei neo-conservatori sta diventando sempre più obsoleta se confrontata con la realtà, mentre si assiste a una divisione della destra fra tea-party e repubblicani "moderati", probabilmente destinata ad accentuarsi. La politica di Obama della "mano tesa" bipartisan verso i repubblicani, pur con i suoi difetti e i forse eccessivi compromessi, forse è più furba di quanto si creda: obbliga gli avversari a dividersi fra "oltranzisti" e "compromessi" e questo sarà decisivo nelle elezioni del 2012. Probabilmente la maggioranza degli americani voteranno per Obama pur senza troppa convinzione, principalmente per l'economia (e poco conta che non sia lui il responsabile), ma altrettanto inorriditi dalle tesi estremiste dei tea party e delusi dall'inconsistenza del GOP, in piena crisi dopo Bush.
    L'America è sempre stata particolarmente sensibile alle figure emblematiche, caricate in negativo come in positivo di un potere simbolico ben più grande di quello effettivo; e la fine di Osama - un'icona come pochi, bisogna ammetterlo, principalmente grazie ai media americani e ai nostri - li costringerà nel modo più radicale a ripensare gli ultimi dieci anni: cosa siamo diventati? Chi era il nostro vero nemico? Quanti abusi di potere abbiamo lasciato correre in nome della sicurezza e dell'emergenza? E quanti fra essi erano giustificati? Che pensare dei manifestanti civili in piazza Tahrir, che ottengono in alcune settimane, contro un uomo, Mubarak, fino a quel momento appoggiato dall'America, quello che l'America non ha ottenuto in dieci anni e due guerre? Il ricatto di questi ultimi dieci anni, "Dittature o terrorismo" si è dimostrato infondato e quindi decade automaticamente.


Tutto questo non si evolverà nel giro di qualche mese, naturalmente - tuttavia penso che l'arrivo di Obama alla presidenza sia stato l'inizio della fine di un certo sistema internazionale, e che la fine di Bin Laden ne sia l'episodio conclusivo. Andiamo incontro forse solo ora a un nuovo periodo, come lo sono stati la guerra fredda o il maccartismo o la guerra al terrorismo. Ci aspettano nuove minacce, anche queste globali, come i mutamenti climatici o una tecnologia che può sfuggire di mano; e a dire il vero non è che prima non ci fossero, solo che, abbagliati da una minaccia minore ingigantita dalla lente dei media, non vedevamo quella vera, che nel frattempo come un tumore ha avuto modo di ingrandirsi e forse ora il volano è già troppo veloce per poterlo fermare senza scottarsi le dita.

lunedì 17 gennaio 2011

Maghreb in movimento

La Tunisia sta vivendo momenti molto concitati, e (pur se in negativo) anche l'Egitto sembra vivere momenti di svolta - del resto la solidarietà della società civile egiziana verso i Copti mostra che in parallelo alla "svolta estremista" esiste anche una "svolta progressista" probabilmente più vasta della prima, che però ha il vantaggio di essere più visibile, grazie ai nostri media. Probabilmente assisteremo a una propagazione delle rivolte in altre zone del Maghreb, specialmente nei paesi governati in modo più rigido e corrotto. Ovviamente l'innesco è arrivato con la crisi economica e l'aumento dei prezzi dei beni primari, che è andato a sovrapporsi con un'alta disoccupazione. Ma - dicevo - è stato appunto solo l'innesco per una carica che era stata piazzata da tempo, a forza di regimi autoritari, istruzione bassa - non solo per le donne, corruzione, arbitrio nell'esercizio del potere altre cose così. A quanto pare - fino ad ora, almeno - la popolazione si è dimostrata più avanti dei propri governanti, e se la transizione avverrà in modo "regolare" (tradotto: senza che i militari si mettano di mezzo e libere elezioni per scegliere un nuovo governo) ne avranno tutti da guadagnare, noi europei compresi.
Infatti, se partisse una effettiva democrazia in tutto il Maghreb - o almeno in una buona parte - anche l'economia, nel medio termine, superata questa crisi, dovrebbe funzionare meglio, il che significa che in futuro - magari anche con l'aiuto dell'Europa per accelerare questo processo - il Nordafrica potrebbe assorbire almeno una parte dei migranti provenienti dall'Africa sub-sahariana. Per ottenere questo, però, è necessario un funzionamento democratico delle istituzioni, perché è risaputo che le dittature e i regimi autoritari portano a cattive condizioni economiche e concentrazione della ricchezza, mentre le democrazie portano a prosperità e distribuzione della ricchezza. In questa transizione è importante il supporto degli Stati democratici.
Questo potrebbe dare un nuovo corso alla storia dell'Africa: per la prima volta la generazione del reddito viene dall'interno del proprio territorio e non da un altro continente. Comincerebbe a stare sulle sue gambe, come del resto in molti altri paesi sta già cominciando a fare. Tradotto: aspettiamoci che tra dieci anni al massimo l'Africa sarà sulla pista di decollo, magari non come la Cina ma come il Brasile sì. Preparatevi.

mercoledì 12 novembre 2008

Götterdämmerung - pt.2

Il collasso del sistema bancario americano, che si sta tirando dietro quello del resto del mondo, assume l'aspetto di una Nemesi. Giuseppe Turani, giornalista di Repubblica, nel suo blog dà un'analisi della situazione che sembra una favoletta per bambini. Sembra come un giocatore d'azzardo che abbia sviluppato dipendenza dal gioco e all'improvviso scopra che il suo casinò abituale è stato chiuso per traffici poco puliti; e lui, come chiunque abbia qualche dipendenza, è lì a costruirsi illusioni e castelli per nutrire la speranza che riapra presto, che si tratti solo di sistemare qua e là le due-tre cose che non vanno e poi via, di nuovo tutto come prima. Ma quello che irrita di più è  quell'atteggiamento da "dai retta a me che queste cose le so, andrà così e cosà e vivranno tutti felici e contenti". Dalle parole trapela l'ordine: devi fidarti di quello che ti dico io perché te lo dico io. Non esibisce fonti o dati a sostegno per le sue profezie, ma come gli Scolastici di un tempo, asserisce che non può andare che così, in base ai dogmi del Mercato e ai loro postulati. Come i cardinali con cui dibatteva Galileo, i quali rifiutavano di guardare nel cannocchiale perché tanto le Scritture bastavano loro per sapere com'era fatto il mondo: e se la realtà è diversa, tanto peggio per la realtà, come disse qualcuno. Peccato che siano proprio i dogmi quelli che stanno crollando.

Quello che l'autore non comprende, è che quello che sta succedendo non è un inciampo come gli altri, questo entrerà nella storia. Non tanto per la pesantezza quanto per le conseguenze. C'è stato chi lo ha paragonato alla caduta del muro di Berlino - vale a dire, l'inizio della fine. O all'11 settembre. Si parlerà di un "prima" e di un "dopo". é conclusa un'era che era cominciata col binomio Reagan-Thatcher negli anni '80. Siamo talmente intrisi dei dogmi del mercato che nel nostro vocabolario non troviamo parole per nient'altro. Come sarà "dopo"? Non riusciamo neanche a figurarcelo soprattutto perché i termini che siamo abituati a usare non saranno più adatti per il mondo nuovo. Come i Berlinesi dell'est, che sapevano di non aver più davanti un muro ma non sapevano, se non vagamente, che mondo avrebbero trovato di là da quel muro. Penso che nel corso degli anni cambierà il modo di pensare, la prospettiva dalla quale osserviamo il mondo, le parole con cui lo raccontiamo. Forse ci sarà l'opportunità di costruire qualcosa di nuovo, ma solo se avremo altrettanto chiaro quello che vogliamo creare quanto lo è già quello che vogliamo distruggere.

Come sappiamo, la parte più importante del debito americano è coperta dalla Cina, ufficialmente il 40% circa ma probabilmente anche di più, forse fino al 60%. Ora, i Cinesi nei prossimi mesi avranno probabilmente in mano la scelta di decidere cosa fare del loro credito verso gli USA. Potrebbero decidere di vendere le loro obbligazioni governative per allontanarsi dal dollaro, ritenendolo un investimento ormai a rischio, causando una catastrofica corsa al ribasso dei titoli del tesoro americani sul mercato mondiale, o tenerle e anzi acquistarne altre per aiutare l'economia americana. Probabilmente faranno questa seconda scelta, perché se l'economia americana collassasse del tutto i produttori cinesi perderebbero d'un colpo il loro mercato di sbocco più importante e anche l'economia cinese si arresterebbe. Potrebbero decidere di puntare sul mercato interno, sulla propria classe media, ma rischia di essere una scelta prematura perché ancora non ha raggiunto una massa critica in termini di percentuale sufficiente della popolazione, da poter far funzionare il sistema industriale cinese; e perché gli asiatici hanno una maggiore propensione al risparmio rispetto agli occidentali. E poi c'è un altro fattore: molte economie asiatiche hanno una forte dipendenza dall'esportazione: in cima Vietnam Taiwan e Corea del sud con circa il 70% del PIL, più equilibrata la Cina col 40% circa, quasi fortunata l'India con il 21% (fonte: Time, 13 ottobre 2008, pag. 28, citando l'Asian Development Bank). Probabilmente nei prossimi mesi vedremo annaspare i grossi esportatori, mentre i paesi che hanno puntato più sul mercato interno faranno un salto in avanti verso stili di vita occidentali.

Insomma, probabilmente già nel prossimo G20 le economie asiatiche sosterranno ancora il sistema occidentale, ma naturalmente la cosa non sarà per grazia. Il prezzo che l'occidente pagherà per continuare a esistere sarà in termini di potere economico, quindi politico e infine militare. Il mondo diventerà finalmente multipolare, mentre le economie emergenti si trasformeranno in economie mature, per cui gli abitanti di Pechino avranno un profilo di consumi simile a quello di un berlinese o di un parigino - o forse anche più alto.

Questo però, in prospettiva nel medio termine costituisce una minaccia allo status quo del partito unico in Cina e ai vari regimi autoritari a vario merito in estremo oriente. Una classe sociale che approfondisce gli studi, viaggia, si abitua a navigare in rete, s'incontra coi propri simili nel tempo libero, col passare del tempo percepirà il sistema politico come sempre più stretto e inadeguato e reclamerà più spazio. Nascerà una società civile anche là (processo già iniziato, del resto). In sostanza, potrebbe essere l'occasione - specialmente adesso con l'elezione di Obama - di vedere entrambi questi due stati, gli USA e la Cina, costretti a seppellire i loro rispettivi dogmi, il Mercato e il Partito, e finire per assomigliarsi un po' di più.

giovedì 6 marzo 2008

Il vero volto dell'Italia

Anche se non mi è ancora chiaro il motivo, tuttavia sto notando che una novità emersa da questa ultima campagna elettorale: mi pare che per qualche misterioso, paradossale motivo, i vari partiti e raggruppamenti stiano finalmente mostrando ciascuno il proprio vero volto. Mi spiego meglio.

Dopo la caduta del muro di Berlino e ancor più dopo la crisi di Tangentopoli, i partiti più importanti, nel tentativo di sopravvivere, avevano finito per convergere e assomigliarsi sempre più, almeno a parole, lasciando da parte le concezioni filosofiche specifiche e differenti da cui erano stati fondati, per adottare - con sfumature leggermente differenti - come dogma di fede il concetto del "libero mercato". Per tutti i partiti l'homo oeconomicus è diventato il centro dell'interesse e dell'attività politica - e per la maggior parte è l'unico aspetto d'interesse; sembra anche che le soluzioni ai problemi del Paese non siano diverse a seconda dei partiti, ma che siano le stesse per tutti: privatizzare, liberalizzare, deregolamentare, flessibilizzare.


Con la campagna elettorale in corso, invece, mi pare che ogni gruppo politico stia mostrando il proprio vero volto: da Ferrara che vuole porre una moratoria sull'aborto e in generale sfoga su "Il foglio" le sue pruderie neocon più sfacciate, ai partiti neo-DC che invocano apertamente una maggiore influenza della chiesa nella politica (come se non ce ne fosse oggi), a Casini & C. che attacca apertamente Berlusconi dopo anni di sodalizio, alla Sinistra arcobaleno che esplicitamente propugna l'abolizione della legge 30 e l'investimento in energie alternative, alla Destra della Santanché che definisce Fini un rinnegato e prosegue nel suo oltranzismo da saluto romano, al PdL che dice che il lavoro precario è stato un successo e va trasformato da esperimento a tempo in sistema permanente, fino al Partito Democratico di Veltroni, che recentemente ha detto che, a parer suo, la lotta di classe non esiste, o comunque è qualcosa di anacronistico, e candida insieme un operaio e un dirigente di Confindustria. In particolare il PD sta avvicinandosi al centro sia nel rapporto con il mondo del lavoro che nel rapporto con la chiesa, e in prospettiva l'unica cosa che potrebbe differenziarlo dal PdL sarebbe l'assenza di conflitto di interesse - cosa che peraltro non è di poco conto.


Questa inattesa "chiarezza" non può che essere un fatto positivo, ma bisogna fare attenzione a non interpretarla come un segno di maturità della nostra classe dirigente: lo vedo casomai come il risultato di una somma di paradossi della politica italiana, primo fra tutti la legge elettorale attuale, che sta portando tutti a comportarsi da "cani sciolti": ognuno per sé, poi quando le elezioni avranno chiarito i rapporti di forza, inizieranno i negoziati, le alleanze, etc.


Il dubbio casomai è: gli elettori sono pronti ad approfittare di questa inaspettata "esplicitezza"? Mi pare di no: ci si schiera ancora per partito preso, come i Senesi durante il Palio, senza conoscere davvero le conseguenze della scelta. Ho idea che dopo il voto, le sorprese saranno molte, e altrettante le proteste. Mi pare che gli elettori, storditi da televisione, titoli sensazionalistici, pubblicità, consumismo, mode, non siano in grado di entrare nel merito delle questioni in gioco; e questo proprio ora, quando si dovrebbe decidere a sangue freddo e con lucidità l'impostazione dell'Italia per gli anni a venire, che in buona parte deciderà la sua collocazione nello scacchiere internazionale. Invece intorno a me vedo frotte di forcaioli arrabbiati, che abbaiano gli slogan e le frasi fatte che leggono sulla stampa e ascoltano in TV: ma è la rabbia dell'impotente, di chi non capisce e così pensa che basti mostrare i muscoli e il muso duro per risolvere tutto. Lo stesso atteggiamento testosteronico degli americani. La società e il mondo presenti hanno raggiunto una complessità e sono formati da una rete di influenze reciproche e di relazioni talmente fitte che ormai nessuno può pretendere di essere in grado di abbracciare il quadro nel suo insieme. Eppure è proprio il bifolco che, istigato da personaggi populisti, si illude di aver già capito tutto, di avere pronte in tasca le soluzioni, "bisogna prendere i giudici e randellarli" ho sentito dire a qualcuno. Quando vedo qualche imbecille, qualche ignorante, qualche sempliciotto mi viene sempre da pensare: "E questo cretino ha purtroppo il diritto di votare, di guidare e di tirar su figli. Quanti danni!...". Purtroppo gli italiani, da ingoranti e disinformati che sono, per risolvere i problemi del paese continuano a votare proprio le persone che ne sono la causa o che lucrano abbondantemente su di essi. Comincio a pensare che gli italiani si meritino i governi che hanno.

martedì 8 gennaio 2008

"l'aereo decolla solo con vento contrario"

Recentemente chiacchieravo con la mamma di un mio amico; è di San Francisco ma vive qui da molti anni e insegna inglese: le facevo notare questo vizio tutto italiano che hanno le élites - e in generale chi ha un qualsiasi potere su qualcun altro, per i motivi più vari - di frapporre una quantità di ostacoli e bastoni fra le ruote a chi sta compiendo dei passi in avanti per sè, come conquistare una laurea, o ottenere un incarico interessante sul lavoro, o anche solo parlare col sindaco. Specialmente se si rendono conto che il giovane che hanno davanti è particolarmente promettente, e costituisce quindi una minaccia seria alla loro rendita di posizione. Per la mentalità italiana, il potere può essere solo "rubato", strappato con la forza, mai ceduto volontariamente ("il potere l'ho lasciato dalle mani" - F. De André). Nel caso meno cruento, viene ereditato, il che equivale a mantenere la situazione. L'atteggiamento è quello di chi ti dice "Vieni a prendertelo se ci riesci!" - ben sapendo di essere inaccessibile. Ufficialmente la giustificazione prende varie forme, tipo "selezione del migliore", "stimolo a dare di più", "l'aereo decolla solo con vento contrario" (vero). Più semplicemente, sono allegre eredità di due tradizioni italiane di lunga data: il fascismo e la mafia. Da una parte, infatti, per la mentalità fascista il potere giustifica sè stesso, nel senso che il semplice fatto di avere del potere fa "aver ragione" a chi ce l'ha (si pensi alle varie gag, o a Fantozzi, in cui il tronfio commendatore di turno viene ammansito dandogli ragione su qualunque cosa). Più uno è potente, più "ha sempre ragione" per definizione, in maniera intrinseca, e quindi ha perfettamente tutti i diritti di fermare con ogni mezzo chi tentasse di scalzarlo; e poi, quando qualcuno ci fosse riuscito, avrà gli stessi diritti e la stessa ferocia di quello che l'ha preceduto - logico, dopo tutta la fatica che gli è costato arrivare fin lì. Insomma: chi vince prende tutto e spella vivo chi ha perso - non ha letteralmente il diritto di esistere. Ricordo ancora un babbeo che conobbi all'università: "...perché i padroni hanno sempre ragione, altrimenti non sarebbero i padroni: bisogna sempre fare come dicono loro, perché capiscono cose che noi non sappiamo. Mio padre, ad esempio, era un crumiro e fiero di esserlo; gli hanno bruciato l'auto 2 volte". Stavo per linciarlo. Comunque questa mentalità rende estremamente difficile il ricambio generazionale, l'arrivo di idee fresche, di gente dinamica; si tende alla stasi, alla fissità, con una classe dirigente di età avanzata che comanda una società immobile. Questa mentalità ha qualcosa in comune anche col sistema mafioso: dopotutto, l'unico modo per prendere il posto di un boss è ucciderlo o farlo arrestare. Il boss lo sa e sta molto attento a non fornire occasioni. In generale, questo modo di concepire i rapporti è tipico di società fortemente gerarchizzate, tradizionaliste e reazionarie, poco propense ad evolversi e organizzate per la stabilità in tempi storici di scarsi cambiamenti. L'emblema tipico che mi viene in mente per questo tipo di figure è la classica miniatura di qualche codice medioevale che ritrae il professore su uno scranno altissimo, simile a un trono, che dispensa il sapere agli studenti-sudditi; il flusso è a senso unico, da lui a loro.

Ma i nostri non sono tempi immobili. Le cose cambiano con un ritmo intenso: cambiano le regole del gioco, i rapporti di forza, le priorità, i modi di entrare in contatto con gli altri, la società stessa. Oggi in Italia sembra esistere un rapporto inversamente proporzionale fra potere e adeguatezza allo stesso: chi ha più potere sono anche le persone meno aggiornate sulla modernità, mentre quelli che hanno le maggiori competenze sono tenuti lontano dalle stanze dove si decide.

Un fattore che credo decisivo, e che mi sembra pochi hanno notato, è che questa classe politica, dal punto di vista anagrafico (la stessa generazione di mio padre, 1934) è nata sotto il fascismo, e anche se erano magari troppo piccoli per assorbirlo direttamente, lo hanno fatto tramite i loro genitori e insegnanti, tutti nell'età della ragione all'epoca. Anche nel dopoguerra, un docente universitario che avesse avuto 50 anni nel 1950, si è trovato immerso nel fascismo durante i suoi anni della formazione e dell'adolescenza, il periodo in cui si è più permeabili. Infatti la società e la scuola italiane degli anni 50 erano estremamente autoritarie, conformiste e gerarchiche. I risultati di questo tipo di educazione li vediamo oggi nella nostra classe dirigente (non solo politica): menti rigide, incapacità non già di prendere decisioni appropriate ma anche solo di raccapezzarsi, in sostanza vivono nel passato e ragionano secondo schemi non più funzionati oggi.

È come gli artigiani di una volta: il vecchio conosceva bene il suo mestiere, i trucchi e le furbizie, ma ne era gelosissimo e l'apprendista doveva "rubarlo", mentre il maestro cercava di ostacolarlo. Oggi ho saputo di operai esperti che si comportano allo stesso modo con i nuovi, e così quando i giovani magari mettevano le mani nei macchinari per cambiare un pezzo (il trucco c'era, ma restava segreto), qualcuno ci lasciava le dita. Oggi la conoscenza funziona solo se è condivisa, solo nei gruppi di lavoro più aperti possibile. Essere gelosi di ciò che si sa/si ha (in sintesi, del proprio potere) equivale a scavarsi la fossa.

Che fare?... Per quanto inetti (è forse la parola più calzante) o criminali, i nostri dirigenti hanno il potere e lo tengono stretto, come l'artigiano anziano di una volta. È vero che per decollare è necessario (o almeno aiuta) un vento contrario, ma qui abbiamo a che fare con la Bora. Penso che l'unica cosa che si possa realmente fare sia lasciare agire il tempo: da una parte abbiamo dei vecchi sempre più decrepiti, dall'altra abbiamo tutto il nuovo. Il risultato potrà essere tardivo ma è inevitabile: come nel detto cinese, aspetteremo il loro cadavere seduti all'ansa del fiume. Semmai, il vero nodo della questione non è se, o quando, ce ne libereremo, piuttosto la domanda che mi preoccupa è: quando finalmente faremo questo salto in avanti, quanto sarà il nostro svantaggio rispetto alle nazioni che saranno già partite 10, 20, 30 anni prima? E in un mondo così veloce, anche ritardi minimi diventano incolmabili. Pensate alla formula 1, quando due auto sono a 5 centesimi una dall'altra a 250 Km/h, vuol dire che stanno a 70 metri una dall'altra. Mi viene in mente il commento di un giornalista del Time Magazine, ex inviato speciale in Italia, che di recente l'ha definita "Il paese più avanzato del terzo mondo".

venerdì 7 dicembre 2007

Da Italo Calvino, Le Città Invisibili

L'Inferno dei viventi non è qualcosa che sarà, se ce n'è uno è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.

Due modi ci sono per non soffrirne: il primo riesce facile a molti, accettare l'inferno e diventarne parte, al punto di non vederlo più; il secondo [è più difficile] ed esige attenzione ed apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno; e farlo durare, e dargli spazio.